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Diciamo la verità: la ricandidatura di Virginia Raggi come sindaco della capitale suonerebbe come uno schiaffo ai romani. Se poi a ricandidarla fosse non il solo Movimento Cinque Stelle ma anche il Pd, quasi a sigillo  della neoalleanza giallorossa, sarebbe un bel po’ la benzina versata sul fuoco dell’antipolitica.

Sia beninteso, qui non è questione di responsabilità personale, o di cattiva intenzione da parte del sindaco. In Italia, come si sa, le responsabilità ultime, non solo quelle politiche, sono sempre difficili da individuare. E comunque non sono mai personali. Fatto sta che vedere quella che fu “caput mundi” in preda ai rifiuti, al dissesto delle strade, alla débâcle dei trasporti, impone, quanto meno a livello simbolico, un cambio di immagine prima ancora che di (auspicabile) marcia.

Ma, purtroppo, una cosa è il livello metapolitico o pragmatico a cui guardiamo noi cittadini, altra cosa sono i giochi di potere a cui ci ha abituato una politica sempre più autoreferenziale e perciò screditata e screditantesi. E che questi giochi politici alla fine possano generare un esito imprevedibile e direi surreale, quale appunto la ricandidatura a sindaco della Raggi, non è affatto da considerare un’ipotesi di pura teoria.

Da una parte sono le lotte interne al Movimento a poter portare verso questo esito; dall’altra, appunto, i patti fra grillini e democratici che, dal livello nazionale, dovrebbero spostarsi ora a quello locale. Nel primo caso, l’alleanza anti Luigi Di Maio della sindaca e di Di Battista ha trovato una conferma proprio in questi giorni con la nomina di Massimo Bugani, ex capo di segreteria del vicepremier, a capo dello staff del primo cittadino (con Di Maio, come si ricorderà, Bugani aveva rotto a inizio agosto).

Contestualmente, Raggi ha anche messo mano a un corposo rimpasto in seno alla sua giunta e iniziato una campagna social che dovrebbe portarla, nei venti mesi che mancano alla fine del suo mandato, a riconquistare punti fra gli sfiduciati, per quanto disincantati, abitanti capitolini. Vasto programma! Il tutto per mettere sul tavolo poi la richiesta di ricandidatura.

Per quanto concerne invece i patti fra piddini e pentastellati, un certo scalpore ha destato, se è vero come è vero che il diavolo ama nascondersi nei dettagli, l’affermazione fatta da Nicola Zingaretti durante il programma televisivo di Lilli Gruber. “Virginia Raggi – ha detto il segretario democratico – non dovrebbe dimettersi come chiede Salvini, ma dovrebbe affrontare con più decisione i temi irrisolti”.

In molti hanno letto queste parole come un lasciapassare dato alla ricandidatura, se mai questa entrasse come pegno da pagare sui doppi e plurimi tavoli della trattativa (quelli interni ai due partiti, quello fra di essi, quelli con Matteo Renzi e la sua Italia viva). Sarebbe davvero un bel rospo amaro da ingoiare per il Partito Democratico che alla Raggi non ha concesso praticamente fiato dal primo giorno del suo insediamento. Tanto più che le successive smentite di Zingaretti e sodali non sono state tali da diradare ogni dubbio. Col risultato che domani pomeriggio, in un’assemblea che si preannuncia drammatica, i democratici romani dovrebbero uscire con un documento che intima alla direzione di non fare giochi alle loro spalle e di non fare nemmeno il nome di Virginia Raggi come possibile candidata.

Che dire? Certo, non ci meraviglia una lotta politica così caotica e infuocata. Né il fatto che ognuno (partito, gruppo, leader) curi solo il proprio interesse. Ci preoccupa piuttosto il fatto che nessuno dei protagonisti in campo pensi quel che a noi pure sembra verità: cioè che a volte il proprio particolare interesse consiste nel fare, o almeno dare l’impressione di fare, quello generale. Vecchia saggezza scomparsa!

Raggi ricandidata? Un’ipotesi surreale. Il commento di Ocone

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