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Ieri, le forze che difendono Tripoli dall’assalto lanciato oltre un mese fa dal signore della guerra dell’Est libico, Khalifa Haftar, hanno fatto sapere, tramite l’account Facebook ufficiale della loro missione difensiva congiunta, di aver ricevuto rinforzi. Vulcano di Rabbia — questo il nome programmatico che le milizie della Tripolitania hanno dato alle operazioni anti-Haftar — hanno mostrato le immagini di dozzine di Kirpi, veicoli corazzati, scesi da un cargo battente bandiera moldava e salpato da Smirne, in Turchia.

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I mezzi arrivati a Tripoli (foto da una fonte libica)

LA POSIZIONE TURCA

È noto che Ankara dia (e abbia dato) sostegno ai gruppi armati di Tripoli e Misurata contro la grande milizia della Cirenaica comandata da Haftar che invece riceve il supporto di Egitto, Emirati Arabi e Arabia Saudita. Un appoggio, quello turco, mosso più nell’ottica di questo confronto proxy con gli altri attori esterni che per comunione d’intenti con il progetto costruito dall’Onu per Tripoli, il Governo di accordo nazionale (Gna) guidato da Fayez Serraj, insediato con l’obiettivo di rappacificare il paese tre anni fa — compito rimasto incompiuto per il muro cirenaico.

Due settimane fa, prima di un tour diplomatico europeo, Serraj aveva mandato il suo uomo migliore, Fathi Bashaga (capo del comparto sicurezza) in Turchia, dove il libico non aveva perso l’occasione di una photo opportunity davanti ad alcuni mezzi militari molto meno diplomatici. In quel viaggio, ad accompagnare Bashaga (che sta via via diventando più forte e potente) c’erano alcuni dei capi delle milizie di Misurata che guidano la difesa di Serraj: una presenza che avrebbe dovuto accompagnare il capo del Gna anche nelle successive visite in diverse capitali europee, ma che Roma per prima ha respinto secondo quanto raccontato da una nostra fonte. Questo perché, al momento, nessuno degli attori esterni europei intende mostrarsi in qualche modo aperto alle attività militari e non può considerare i comandanti miliziani interlocutori. Il faro che guida le diplomazie Ue che stanno trattando la crisi, rispetto a quella turca, è il cessate il fuoco immediato, per poi, ad armi abbassate, tornare al tavolo negoziale.

LA GUERRA PROXY

Ankara invece ha un’agenda diversa, che la porta a sfidare l’embargo Onu sull’invio di armi alla Libia. La stessa agenda che porta alcuni dei paesi che sostengono Haftar ad azioni simili. La Libia è ormai diventata il territorio di un complicato confronto per procura tra due enormi visioni all’interno del mondo dell’Islam sunnita. Da una parte i turchi, che con il Qatar (altro sponsor della Tripolitania) hanno visioni islamiste del tutto simili a quelle della Fratellanza musulmana, organizzazione socio-politica panaraba cui si rifanno anche molti dei politici di Misurata che fanno parte della squadra onusiana di Serraj. Su tutti Bashaga, appunto.

Dall’altra l’interpretazione più pragmatica e universalista, e anti-islamista, di Cairo e Abu Dhabi, col sostegno di Riad. Realtà dove la Fratellanza è addirittura considerata un’organizzazione terroristica — e infatti la missione su Tripoli di Haftar viene descritta attraverso la narrazione dell’operazione anti-terrorismo, vettore retorico con cui coprire l’imbarazzo di un’aggressione contro un progetto dell’Onu finalizzata all’instaurazione in Libia di un nuovo rais.

Ieri, il portavoce di Haftar diceva che avrebbe tagliato la testa ai tripolitani come fatto col Daesh, acronimo arabo dello Stato islamico (parlarne richiederebbe un lungo capitolo a parte, per ora basta dire che i baghdadisti libici sono stati disarticolati dai misuratini con la liberazione di Sirte, e che gli haftariani non hanno partecipato a quella battaglia e ne hanno combattuto spurie minori a Bengasi). Gli stessi concetti sono ripetuti oggi in un pezzo sul francese Journal du  Dimanche dal ministro degli Esteri emiratino, sebbene con il linguaggio più diplomatico della de-escalation.

LA SITUAZIONE SUL CAMPO

La sovradimensione del confronto regionale per proxy locali si abbina col sentimento libico. Quello per esempio anti-Haftar, ossia anti-nuovo-rais, che guida molto più di un qualcosa che potremmo definire un pro-Serraj, le operazioni dei miliziani che fanno parte del Vulcano di Rabbia. L’altro, simmetrico, è la smania egemonica di conquistare il paese che ha spinto i miliziani di Bengasi a un’improba missione a centinaia di chilometri di distanza contro la capitale.

Sul campo la situazione è adesso molto più favorevole agli aggrediti che all’aggressore, e i rinforzi militari stanno avendo — e avranno — un ruolo importante. Le forze anti-Haftar hanno anche iniziato a usare droni, per esempio, ripetendo da Ovest quello che aveva dato un valore in più ai bombardamenti dell’Est a sud di Tripoli, dove i miliziani haftariani nelle scorse settimane s’erano visti aprire la via da attacchi aerei (teoricamente) sofisticati condotti probabilmente da velivoli senza piloti forniti dagli Emirati. Raid che per altro fanno parte di un fascicolo dell’Onu, che sta verificando la tracciabilità dell’arma, sia per le violazioni dell’embargo sia perché hanno prodotto diverse vittime civili.

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Bashaga in Turchia

A questo punto il cessate il fuoco sembra più difficile, anche per il piano extra locale che si sta via via consolidando nella guerra che si combatte in Libia. Per esempio, le forze anti-Haftar — secondo quel che ci dice una fonte da Misurata — intendono finire il lavoro e scacciare dalla Tripolitania l’autoproclamato Feldmaresciallo della Cirenaica. E non è chiaro quanto Serraj sia in grado di controllare il vulcano di rabbia che muove questo sentimento di vendetta dietro alla controffensiva dei suoi.

(Foto: Fathi Bashaga in Turchia)

 

Gli anti-Haftar ostentano nuove armi su Fb, e avanzano sul terreno

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