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La guerra ibrida o di quinta generazione, teorizzata nel 2013 dal capo di Stato maggiore russo, Valery Gerasimov, e sperimentata l’anno successivo nel Donbass e in Crimea, è tornata di moda da quando al Summit di Varsavia del 2016 la Nato ha deciso di considerarla un nuovo tipo di guerra. Essa sarebbe capace, utilizzando le nuove tecnologie, di raggiungere efficacemente obiettivi politici in passato raggiungibili soprattutto con l’utilizzo reale della potenza militare. In realtà, la guerra che oggi chiamiamo ibrida è un fenomeno vecchio come il mondo. Anche in passato l’opzione militare è stata sempre considerata quella meno preferibile rispetto agli altri strumenti di potenza degli attori strategici (propaganda, disinformazione, strategie d’influenza, finanziamento di terroristi, insorti e guerriglieri, attacchi cibernetici, pressioni economiche, utilizzo di proxy e di forze paramilitari – i “piccoli uomini verdi” della Crimea –, azioni indirette e asimmetriche, ecc.).

Il soft power è sempre preferibile all’hard power, che è necessario, ma che va possibilmente utilizzato in potenza. I due poteri vanno combinati fra loro, in quello che Robert Nye ha chiamato smart power. La guerra non è stata mai un fenomeno tecnico-militare, ma piuttosto uno politico-sociale. L’obiettivo dell’uso della forza non sono mai stati solo gli eserciti, ma le società, vulnerabili a una serie complessa di fattori, materiali e immateriali. Rispetto al passato, in cui dominava l’ordine militare, oggi l’uso della forza rende sempre meno, costa sempre più ed è più rischioso.

Le guerre tradizionali non scoppiano più fra gli Stati più potenti, ma fra quelli più deboli e al loro interno. Giocano, al riguardo, la presenza delle armi nucleari, il cui impiego – diverso dalla semplice dissuasione – produrrebbe effetti distruttivi superiori a qualsiasi obiettivo politico razionale, e il declino demografico di tutte le maggiori potenze (eccetto l’India), il quale rende inaccettabili le perdite inevitabili in conflitti ad alta intensità operativa e tecnologica. Il declino demografico rende gli Stati più avanzati indisponibili a subire perdite. I loro eserciti iper-tecnologici non sono idonei all’occupazione e al controllo dei territori. Il petrolio si compra, non si conquista. Quelli più deboli e i gruppi sub-statali ricorrono a forme asimmetriche di lotta, rese più efficaci dallo sviluppo e dalla diffusione delle tecnologie. Inoltre, nell’era dell’informazione, di Internet, dei social media e del cyber-spazio le società sono divenute più vulnerabili del passato. Si è così allargata la zona grigia esistente fra la pace completa e la guerra totale, anche perché diventa difficile attribuire la responsabilità di un attacco, in particolare di quello cibernetico. Il conflitto per aumentare la propria influenza e conseguire i propri interessi è divenuto permanente e ambiguo.

La “guerra in forma” con dichiarazioni di guerra è praticamente scomparsa. Incerto è il significato di minaccia e anche quello di vittoria. Le guerre del passato avevano un inizio e una fine. Oggi sono state sostituite dalle permanenti e ambigue guerre dell’informazione. Tale trasformazione pone grosse sfide ai servizi d’intelligence. Lo stesso ciclo dell’intelligence si è mutato, come ha suggerito Gregory Treverton, già capo del National intelligence council americano. A una minaccia ibrida va data una risposta ibrida, resa però difficile dal fatto che, a differenza dei conflitti tradizionali, l’attacco è strutturalmente superiore alla difesa. Non esistono linee di fronte. La sorpresa domina. Ogni previsione sui tipi di strumenti che utilizzerà l’avversario è difficile.

L’intelligence deve essere globale o comprehensive, come ha affermato la Nato all’atto della costituzione delle All-source intelligence cell. Diventa essenziale, più che in passato, la comprensione del contesto storico, culturale e politico interno, inclusa la psicologia dei responsabili politici e strategici. L’ampia disponibilità di fonti aperte va completamente sfruttata. Centrale è divenuta la Socmint (social media intelligence), per il controllo delle tendenze dell’opinione pubblica, come ben dimostrato dalle analisi effettuate per comprendere le dinamiche delle primavere arabe e dalla necessità di gestire con efficacia le proprie strategie d’influenza e di contrastare quelle avversarie. Le missioni dell’intelligence non sono più esclusivamente quelle di affrontare i known-unknown, come avveniva nei conflitti tradizionali, ma gli unknown-unknown, data la pluralità e imprevedibilità del tipo di minaccia che si deve affrontare. Esse non sono più prevalentemente militari, ma politiche, economiche, psicologiche, comunicative.

Le previsioni sono divenute più difficili e, al tempo stesso, più indispensabili. Richiedono un approccio globale. Specie in campo cibernetico è difficile attribuire la responsabilità di un attacco, effettuato con un trojan horse o con un malware. La dissuasione è divenuta impraticabile. Beninteso, la disinformazione o la maskirovska non sono state inventate da Gerasimov. Sono vecchie come il mondo. Nella guerra dell’informazione, che rappresenta il punto centrale della guerra ibrida, le democrazie liberali dell’occidente si trovano svantaggiate, anche a causa di valori come la libertà di stampa, rispetto a quelle illiberali o autoritarie, come la Russia o la Cina.

Lo dimostrano le vicende dell’Office of strategic influence, che Donald Rumsfeld fu costretto a sciogliere o le limitazioni poste all’uso della corruzione e delle intercettazioni. Ciò rende complesso l’adeguamento alle nuove minacce dei Servizi d’intelligence e ne diminuisce anche la necessaria autonomia, che dovrebbe invece aumentare nell’era delle guerre ibride. Le minacce virtuali, come quelle cibernetiche e comunicative sono meno percepibili di quelle materiali. Richiedono, inoltre, risposte immediate. Le fake news hanno effetti molto più rapidi di ogni smentita. I decisori politici hanno buon gioco a imporre i loro preconcetti alle analisi dell’intelligence, come sta avvenendo negli Usa con Donald Trump. Di qui l’importanza della diffusione della cultura dell’intelligence, componente essenziale di quella della sicurezza.

Come cambia l’intelligence ai tempi delle fake news. Lezione di Carlo Jean

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