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Secondo la prima, abbozzata vision della Farnesina targata Luigi Di Maio, l’Africa dovrà avere un ruolo centrale: in una lettera agli ambasciatori con cui il leader pentastellato ha delineato le proiezioni strategiche sugli Esteri da lui pensate, si spiega che l’Africa “non può essere più vista come motivo di preoccupazione, bensì come opportunità per individuare nuovi partner strategici attraverso i quali incrementare la crescita del nostro Paese”.

L’interessamento alle dinamiche del continente africano non è una novità assoluta per l’Italia, anzi, e si inquadrerebbe bene in un gioco di influenze dove la sfera italiana arriva certamente fino alla fascia settentrionale, Libia, Tunisia, Algeria, Marocco, Egitto, ma scende anche fino al Mozambico, alla Repubblica del Congo, Angola e Zambia, tutte aree di stretto interesse dell’Eni, l’azienda più strategica d’Italia, una sorta di secondo ufficio diplomatico per le relazioni estere di Roma.

Un aperto interessamento all’Africa, inoltre, c’era già stato nel primo governo Conte, quando il presidente del Consiglio fu il primo leader straniero a recarsi in Etiopia ed Eritrea una volta siglata la storica pace (su cui al Quirinale è riconosciuto un ruolo diplomatico); là, in un quadrante nevralgico, il Corno d’Africa, che si sta dimostrando ancora un lineamento strutturale strategico su cui hanno messo da molto tempo gli occhi sia gli Stati occidentali, sia la Cina, la Russia e le nazioni del Golfo. Il Corno d’Africa è stata anche oggetto del lavoro della ex vice ministro degli Esteri, Emanuela Del Re, che è stata in visita in Eritrea, Etiopia, Somalia e Gibuti a dicembre del 2018, dopo contatti interministeriali avviati già a New York. Azione, questa, in realtà già fortemente partita nei precedenti governi Renzi e Gentiloni dall’omologo Mario Giro, che aveva anche sfruttato il background fortissimo che nel continente ha la Comunità di Sant’Egidio (per la quale Giro ha seguito progetti in Camerun, Costa d’Avorio e poi Burundi).

Di Maio, e in generale il governo Conte 2 di cui è parte integrante e sostanziale (per il ruolo ricoperto nel M5S), nella proiezione in Africa troverà attori competitivi e possibilità di cooperazione. Facciamo due esempi, partendo dalla Cina. Uno degli ambiti fondamentali che Roma intende sviluppare con Pechino è la collaborazione in Paesi terzi. È un obiettivo importante che potrebbe aprire possibilità enormi all’Italia. Ed è quello che la linea più pragmatica dei sostenitori del protocollo d’adesione alla Belt&Road Initiative, promossa proprio dal Mise, l’ex ministero di Di Maio, utilizza per giustificare l’eccessiva esposizione politica concessa dal governo italiano inglobandosi nell’infrastruttura geopolitica cinese.

La Cina s’è fortemente piazzata in Africa. Ha avviato progetti diretti e partecipa ai programmi di sviluppo di molte nazioni locali, sostiene le iniziative umanitarie. Terreno quest’ultimo in cui non è ancora forte, ma ha già ottenuto il primo genere di ritorno politico il 23 giugno scorso, quando il vice ministro dell’Agricoltura e degli Affari Rurali, Qu Dongyu, è stato eletto al vertice della Fao, battendo la candidata francese sostenuta dall’Ue e quello georgiano appoggiato dagli Usa. La vittoria di Qu, spiega un’analisi di Sara Nicoletti del CeSI pubblicata all’inizio del mese, è stata possibile proprio grazie al “sostegno massiccio” ricevuto dalle nazioni africane, che hanno spostato l’asse della bilancia.

L’elezione per Pechino è piuttosto importante, perché dalla Food and Agriculture Organization passano dinamiche che interessano un Paese come la Cina, caratterizzato ancora da forti differenze interne. Allo stesso tempo è una testimonianza di come il Dragone usi la propria presenza per veicolare i suoi interessi, con l’accusa di applicare forzature predatorie. Per esempio: nel 2011 il budget umanitario cinese per l’Africa è stato tutto indirizzato per combattere la siccità in Kenya, Etiopia, Somalia e Gibuti. Questi quattro Paesi, però, più che per necessità contingenti, sembrano essere stati scelti perché centri di interessi:”Kenya ed Etiopia sono potenze rilevanti nel contesto africano, nonché economie in grande espansione e mercati per il manifatturiero di Pechino, mentre Somalia e Gibuti rappresentano Stati fondamentali per dinamiche legate al contrasto al terrorismo e alle rotte commerciali lungo l’asse Oceano Indiano-Mar Mediterraneo”, spiega Nicoletti.

Sul terreno africano, tra gli altri, l’Italia troverà anche la concorrenza di diversi Paesi occidentali, non ultimo la Germania. È il secondo esempio. L’interessamento tedesco all’Africa risale al 2016, ma si è manifestato chiaramente dopo il G20 di Amburgo, quando è stato lanciato il “Compact with Africa con il fine di migliorare le condizioni per gli investimenti privati, promuovere le fonti energetiche sostenibili e rafforzare lo sviluppo infrastrutturale”, spiega in un altro recente report CeSI Andrea Cerasuolo. Secondo l’analisi, i piani studiati da Berlino hanno il triplice scopo di rilanciare l’economia tedesca, arginare l’afflusso di migranti provenienti dall’Africa e contrastare l’espansione di Cina e India in quel continente.

Berlino, spiega Cerasuolo, cerca di posizionare strategicamente la sua filiera produttiva nel continente: “Per esempio, ben sapendo che la domanda energetica africana nel 2040 sarà dell’80% superiore a quella di oggi, sta promuovendo le energie alternative: in Marocco e in Egitto i più grandi impianti al mondo di pannelli solari e di pale eoliche sono stati costruiti con il supporto della Germania”. La green economy in declinazione africana, altro tema che nel programma del governo giallorosso è in cima all’agenda. Ma non solo: le imprese tedesche hanno contribuito allo sviluppo rapido dell’industria tessile etiope e qui marcano le differenze (in termini di trattamenti e qualità dell’investimento) con altre realtà, come quella cinese appunto.

Di Maio pensa all’Africa. Gli interessi della Cina e le mosse della Germania

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