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“Conosco molto bene il presidente cinese Xi Jinping. È un grande leader che ha molto rispetto per il suo popolo. È anche un brav’uomo [impegnato] in un affare difficile. Ho ZERO dubbi sul fatto che se il presidente Xi vuole risolvere rapidamente e umanamente il problema di Hong Kong, può farlo. Incontro personale?”. “Umanamente” e “rapidamente”, Donald Trump affronta il dossier Hong Kong ancora con distacco e garbo, non stressa le proteste e non usa il sostegno al popolo hongkonghese, in strada per chiedere libertà e democrazia, come proxy nel confronto globale con Pechino, addirittura sembra lanciare un’ancora al capo di stato cinese Xi proponendogli la soluzione tramite un incontro personale.

Ci sono ragioni dietro a questo atteggiamento, così diverso da quello preso da alcuni senatori, anche importanti come per esempio Mitch McConnell o Elizabeth Warren, due politicamente agli antipodi, ma la democratica e il repubblicano condividono sia la necessità di incalzare la Cina sia la volontà di farlo partendo dal campo dei diritti umani e civili, sia più in grande la visione degli Stati Uni come tutori globali di certi valori. Per questo negli ultimi due giorni si sono espressi a favore dei manifestanti e contro Pechino. Trump fondamentalmente non è troppo distante da questo (sebbene quell’impegno americano i teorici del pensiero del presidente lo considerino una faccenda da muovere da remoto), ma è anche un negoziatore. Sa che per chiudere un accordo ci sono dei momenti in cui accelerare e altri in cui frenare, vuole applicare queste sue doti al rapporto fra stati (può farlo perché l’America è e resterà il più forte di tutti).

Su Hong Kong, Trump frena con la Cina, perché ha preso un impegno personale durante una conversazione telefonica con Xi avvenuta il 18 giugno, nella quale ha promesso che non avrebbe usato le proteste per attaccare Pechino. Una richiesta del cinese, che Trump ha accettato per cercare di ottenere una leva sul grande dossier commerciale, terreno di sfogo del confronto strategico tra potenze, su cui la Casa Bianca vorrebbe raggiungere un risultato anche per portarlo in dote all’elettorato; un successo tra quelli da rivendicare. Le due informazioni, l’accordo e il suo obiettivo, sono frutto di due scoop di Politico e Financial Times, che raccontano anche come alcuni collaboratori di Trump (tra questi il Consigliere per ma Sicurezza nazionale, John Bolton, i capi-uffici sulla Cina al dipartimento di Stato e diversi al Tesoro) non fossero d’accordo con il piano, ma hanno accettato la linea presidenziale. Salvo poi restare spiazzati quando l’altro ieri Trump aveva rotto un sostanziale silenzio, durato per quasi tutte le dieci settimane di proteste, invitando la Cina a stare calma a proposito delle informazioni di intelligence ottenute dagli Usa sull’ammassamento di truppe cinesi al confine col  Porto Profumato, pronte a entrare in massa per riportare l’ordine. Ma era quasi inevitabile parlarne: da una decina di giorni quelle immagini e quelle informazioni a cui ha accennato Trump circolano sui social media, sono riprese dai satelliti open source e oggi AFP ha un video esclusivo sul posizionamento di unità militarizzate della polizia del Dragone all’interno di uno stadio a Shenzen. Non si può ignorare questi movimenti che potrebbero anticipare una nuova Tienanmen, insomma.

C’è dissonanza tra la Casa Bianca e gli altri rami dell’amministrazione anche su Hong Kong, ma è un elemento accettabile anche per non perdere terreno; non è detto che la linea morbida di Trump continui, per esempio davanti a eventuali repressioni brutali da parte della Cina. I commenti di Trump — che vuol mantenere le questioni economiche separate da quelle sui diritti — sono notevolmente meno assertivi di quelli del dipartimento di Stato, che ha ringhiato pubblicamente contro Pechino dopo che i funzionari del governo cinese hanno rivelato ai media di stato dettagli personali su un diplomatico americano che ha incontrato attivisti del movimento democratico di Hong Kong. Faccenda attorno cui ruota parte della narrativa cinese: gli americani hanno organizzato le proteste.

Le visioni del presidente sono state meglio articolate dal segretario al Commercio, Wilbur Ross, che mercoledì mattina ha detto a “Squawk Box” della CNBC che gli Stati Uniti non hanno avuto alcun ruolo nella disputa tra Cina e Hong Kong, definendola una “questione interna”. E ancora meglio da una dichiarazione fatta a Politico da Steve Bannon, stratega politico proto-trumpista, un tempo capo della strategia della Casa Bianca con cui il presidente non ha mai tagliato del tutto i collegamenti e in questa fase pre-elettorale sta tornando in vista: “Trump sta cercando di fornire ordine e stabilità — dice Bannon — mentre passa attraversare  questa massiccia ristrutturazione dell’economia cinese e mondiale. Non può permettersi il lusso di essere uno sputafuoco: una mossa sbagliata qui e la situazione potrebbe diventare termonucleare. E il Partito comunista cinese non può assumersi la responsabilità di quello che sta accadendo. Devono incolpare gli Stati Uniti di essere la mano nera dietro tutto questo. Ecco perché il presidente deve rimanere al di sopra della mischia”. Ossia, visto che Pechino accusa Washington di fomentare le proteste, per Bannon la cosa migliore è starne distanti e non rischiare di dar seguito a questa propaganda (che i cinesi hanno studiato anche per ottenere come effetto quello di scoraggiare la presenza americana sul dossier hongkonghese). Tutto con un limite: difficilmente la Casa Bianca potrà stare in silenzio davanti a un’eventuale uso eccessivo della forza da parte della Cina.

Gli occhi degli Stati Uniti su Hong Kong. E Trump si fa “colomba” con Xi

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