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“Per il nostro export prevediamo per il prossimo triennio un ritmo di crescita moderato ma positivo che porterà le nostre vendite nel mondo oltre i 500 miliardi di euro entro il 2022”. A parlare in quest’intervista a Formiche.net è Beniamino Quintieri, presidente Sace Simest che sottolinea come il made in Italy crescerà anche quest’anno nonostante il rallentamento economico internazionale, la guerra dei dazi e problemi insoluti come la Brexit. “Si tratta di una performance non scontata – ci dice – considerando la complessità del quadro globale e la già evidente frenata del commercio internazionale”.

Presidente quali saranno i pericoli per il nostro commercio estero?

Sono diverse le incertezze che ci portiamo dietro dagli anni passati e che continueranno a pesare sul nostro export: la possibile escalation protezionistica statunitense, con un conseguente rallentamento dell’economia cinese, ma anche l’ipotesi, sempre più probabile, di una Brexit disordinata, che influenzerebbe negativamente le relazioni commerciali non solo con il Regno Unito, ma anche con altri Paesi europei. Infine non dobbiamo sottovalutare la frenata della Germania, nostro principale partner commerciale, che già nel 2018 ha registrato una contrazione e che può avere effetti rilevanti sulle esportazioni italiane.

Quali saranno i mercati del futuro per il made in Italy?

Tra le aree a maggior potenziale ci sono senz’altro l’Asia (trainata da Cina, Corea del Sud, India, Vietnam) e il Nord America, trainato dagli Usa: geografie per le quali prevediamo tassi di crescita vicini al 5% del nostro export per l’anno in corso. Ancora più intenso è il ritmo che prevediamo per l’Africa Subsahariana, spinto sia da destinazioni più tradizionali come il Sudafrica, ma anche nuove frontiere come Senegal e Ghana. L’America Latina, dopo un 2018 condizionato dalla contrazione di Argentina e Venezuela, riprenderà ad avanzare grazie a mercati come Brasile, Cile e Messico. In questo contesto, non dimentichiamo però il ruolo dell’Europa, che da sola rappresenta ancora il 52,9% del nostro export e che continuerà a garantire tanta parte del nostro export, con una crescita attesa del 3% circa delle nostre vendite in quest’area.

E quali settori cresceranno di più?

Per quanto riguarda i settori, le performance del nostro export sono esportazioni dei prodotti dell’agrifood italiano, in particolare, sono previste in aumento del 3,8% nell’anno in corso, il ritmo più elevato tra i quattro raggruppamenti, mentre a registrare la crescita più moderata (+3,1% nel 2019) saranno i beni di investimento, che soffrono l’incertezza globale e le difficoltà del settore automotive – ma che rappresentano ancora il 40% del nostro export e annoverano diversi settori d’eccellenza. Più al riparo dal rallentamento della domanda mondiale dovrebbero invece restare i beni di consumo made in Italy, in particolare abbigliamento e arredamento.

Eppure oltre il 50% delle nostre esportazioni avvengono nell’Unione Europea. In particolare con la Germania. Temete un rallentamento della locomotiva tedesca? E che effetti potrebbe avere per l’Italia?

La situazione della Germania merita tutta la nostra attenzione, vista l’interconnessione delle nostre due economie. La Germania è il principale partner commerciale dell’Italia, sia come Paese esportatore sia come importatore. Basti pensare che nel 2018 l’export italiano verso la Germania si è attestato sui 58 miliardi di euro, rappresentando da solo il 12% circa del nostro export totale. Ma anche per quanto concerne le catene globali del valore, ovvero quelle sequenze di fasi produttive che dagli input iniziali conducono ai prodotti finali, passando per i beni intermedi. Sotto questo aspetto, negli ultimi anni, la Germania è diventata un vero e proprio hub della produzione europea, capace di importare dagli altri Paesi europei semilavorati e prodotti intermedi, trasformarli e successivamente esportarli includendo valore aggiunto proveniente da quei Paesi. Pertanto, all’interno degli ingenti flussi di esportazioni tedesche, è incorporata una parte di valore aggiunto prodotto in Italia – oggi appunto tra i principali fornitori tedeschi, soprattutto in un settore importante come quello della meccanica. Ciò implica che una riduzione delle esportazioni tedesche determinerebbe, a sua volta, una contrazione di quelle italiane.

Gli Stati Uniti sono in ottima salute, ha detto l’ex ministro del Tesoro, Vittorio Grilli oggi chairman di Jp Morgan. La guerra dei dazi fa più male a Pechino che a Washington. E per l’Italia, che riflessi potrebbero esserci?

L’inasprimento della politica protezionistica americana continua a destare preoccupazioni, sia per le dimensioni che gli Stati Uniti rappresentano come mercato in sé, sia per gli effetti che le misure attuate e quelle che eventualmente ne potrebbero derivare possono provocare su gran parte delle economie avanzate ed emergenti. Secondo le nostre stime, in caso di guerra commerciale, le esportazioni italiane verso il mondo aumenterebbero più lentamente, con impatti ancora più marcati per le nostre vendite verso gli Stati Uniti. A questo vanno aggiunti gli effetti di ulteriore rallentamento che una simile escalation potrebbe avere sull’economia cinese con conseguenze a cascata su altre economie emergenti con una perdita per il nostro export di 0,8 punti percentuali nel 2019 e 1,7 punti percentuali nel 2020.

Non solo con la Cina, Trump minaccia di colpire anche l’Europa e in particolare di alzare le tariffe per l’import di automobili. Che effetti potrebbero avere queste misure?

Gli effetti sarebbero certamente molto forti tenuto conto che la filiera dell’automotive italiana è altamente specializzata e integrata nelle catene globali del valore. Difficile quantificarne gli impatti, anche alla luce dei profondi cambiamenti che il comparto sta attraversando proprio in queste settimane.

Dal vostro rapporto emerge come l’export in questi 8 anni abbia supplito alla mancata crescita della nostra economia. Che misure servono per la crescita e per le imprese esportatrici?

Per sostenere la competitività delle imprese, servono infrastrutture adeguate: reti logistiche e di trasporto efficienti, connettività diffusa ed efficace. Ma serve anche un’adeguata “architettura” del sostegno di sistema: importanti sforzi sono stati messi in atto nel corso degli ultimi anni da parte del Polo Sace Simest, che stanno producendo risultati apprezzabili. Occorre valorizzare ulteriormente queste iniziative, soprattutto in termini di interventi mirati nelle geografie di punta.
Per ultimo, ma non da ultimo, c’è il tema delle dimensioni aziendali che caratterizzano il nostro tessuto imprenditoriale – molto flessibile ma anche molto frammentato e dunque particolarmente esposto alle sfide e rischi dei mercati globali, in cui le economie di scala e barriere d’altro tipo costituiscono dei vincoli non facilmente sormontabili. È necessario puntare a un maggior consolidamento delle imprese, lavorando lungo tre assi – crescita dimensionale, innovazione, espansione e diversificazione dei mercati di riferimento. Ovviamente, con un punto di attenzione particolare alle Pmi, per portarle sui mercati esteri e aiutarle a farlo in un modo strutturato ed efficace.

Ma come si può combattere il fenomeno delle delocalizzazioni selvagge e far capire che la strada giusta si chiama internazionalizzazione?

Spostare la produzione all’estero con il solo obiettivo di ridurre i costi della manodopera non è certo una prassi vincente, e l’esperienza ne sta dando pienamente atto. Le migliori strategie di internazionalizzazione sono molto più complesse ma anche più efficaci nel medio-lungo termine: richiedono la capacità di identificare Paesi ad alto potenziale e produrre in loco per servire al meglio quei mercati. Dati alla mano, questo tipo di investimenti esteri ha dei ritorni sul business molto rilevanti e duraturi nel tempo. È questa la direzione verso cui incoraggiamo le imprese anche attraverso il nostro programma innovativo Education to Export, che ha come obiettivo di avvicinare le imprese, in particolare le Pmi, ai mercati esteri rafforzandone preparazione e formazione.

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