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Se è la figlia prediletta del presidente, Ivanka Trump, a spingere via Facebook il piano negoziale per arrivare alla pace tra governo afghano e talebani che gli Stati Uniti stanno conducendo attraverso un accordo già raggiunto col gruppo jihadista insorgente, allora vuol dire che Washington sul dossier ci punta. Tanto da spenderci parte del capitale politico di Ivanka, che condividendo un articolo del New York Times (quello che rileva uno dei dettagli più succosi dietro l’accordo: il ritiro di tutte le forze armate americane dall’Afghanistan), sottolinea: “I colloqui di pace afghani devono includere le donne afghane. Il loro contributo è fondamentale per raggiungere una pace sostenibile che preservi i loro sofferti guadagni ottenuti nella vita politica, economica e sociale del loro paese”.

IL PERCORSO

L’Afghanistan è un argomento delicato: Donald Trump lo ha già individuato come una delle guerre senza fine da cui vuol tirare fuori gli Stati Uniti (che tecnicamente hanno invaso il paese con copertura Nato per rispondere all’attacco del 9/11, dato che i talebani fornivano protezioni ad al Qaeda, responsabile della strage della Torri Gemelle). Il presidente trova consenso nel disingaggio, perché quello afghano è un fronte aperto da 17 anni che ha prodotto vittime militari e tanti morti. I cittadini sentono il peso di questo impegno e velocizzare le operazioni è una carta elettorale verso il 2020, da bilanciare però con la situazione reale sul campo. E allora esce l’idea di darsi massimo cinque anni per un ritiro di tutte le forze americane e alleate presenti in Afghanistan. È questa la carta che il Pentagono è pronto a giocarsi su tre tavoli differenti: i negoziati con i talebani; i colloqui con tutti i partner coinvolti e la partita (forse più complessa) con la presidenza, che preme da tempo per un consistente ripiegamento. Il progetto del dipartimento della Difesa (guidato oggi da Patrick Shanahan dopo il ritiro del generale James Mattis per i disaccordi proprio sulla politica militare del tycoon) è stato svelato da quell’articolo New York Times condivido da Ivanka.

IL PIANO DEL PENTAGONO

L’obiettivo della Difesa Usa è triplice. Prima di tutto, c’è l’intenzione di giocarsi la carta del ritiro completo nell’ambito dei negoziati di pace con i talebani, che lo scorso lunedì hanno visto andare in scena in Qatar una nuova puntata di alto profilo, con la partecipazione del comandante della missione internazionale, il generale Austin S. Miller. Parallelamente, il Pentagono punta a compattare l’Alleanza, superando i timori che tra i partner europei e mediorientali erano circolati circa l’incertezza della proiezione Usa. Il progetto si basa infatti sul pieno accordo con gli alleati, un elemento tecnicamente imprescindibile per il ritiro di contingenti anche molto corposi. Terzo, infine, c’è l’obiettivo di frenare le velleità del presidente Donald Trump, sperando che accetti la nuova tabella di marcia rispetto alle sparate su ripiegamenti più o meno immediati.

IL RUOLO DEI TALEBANI

A svelare alcuni dettagli del piano del Pentagono è stato il New York Times, citando colloqui con alti funzionari statunitensi ed europei. La finestra temporale per il ritiro completo va da tre a cinque anni. Nei primi mesi, si potrebbe procedere con il ripiegamento, annunciato da Trump già prima di Natale, di metà del contingente americano. Ciò non distoglierà l’attenzione Usa dal contrasto al terrorismo, con operazioni e bombardamenti mirati che continuerebbero fino al completamento finale della missione. Su tutto questo, ha spiegato il quotidiano newyorchese, hanno influito anche le richieste dei talebani, che si sarebbero impegnati da parte loro a prevenire la stabilizzazione di gruppi terroristici sul territorio da loro controllato. Per ora, l’unico limite sembra essere l’esclusione dai negoziati del governo di Kabul, con il presidente Ashraf Ghani e i suoi rappresentanti esclusi dalla definizione del progetto.

IL QUADRO NATO

Eppure, la parola d’ordine è “concertazione”, ripetuta a più riprese da tutti i vertici americani interrogati sul progetto di ritiro. Una linea emersa con chiarezza nell’ultima riunione dei ministri della Difesa della Nato, andata in scena poche settimane fa a Bruxelles e concentratasi, inevitabilmente, proprio sull’Afghanistan. “Gli alleati sono insieme, insieme decideranno il futuro della missione Resolute Support”, spiegava chiudendo la ministeriale il segretario generale dell’Alleanza Atlantica Jens Stoltenberg. “Non ci sarà nessun ritiro unilaterale di truppe dall’Afghanistan; saremo coordinati e uniti”, aggiungeva il segretario Usa pro tempore Patrick Shanahan. D’altra parte, rimarcava la rappresentante permanente degli Stati Uniti presso la Nato, Kay Bailey Hutchison, “sul processo di pace stiamo procedendo nella giusta direzione, ma non siamo comunque arrivati al punto che vorremmo”. Una linea sposata anche dall’Italia, con il ministro della Difesa Elisabetta Trenta che ha inizio mese ha affidato al Comando operativo di vertice interforze (Coi) uno studio di pianificazione per un eventuale ritiro.

LE PAROLE DELLA TRENTA

Pochi giorni fa, la titolare di palazzo Baracchini è tornata sulla questione. “Tutte le missioni – ha detto – hanno un inizio e una fine; a noi piacerebbe ritirarci quando la missione è compiuta al 100%, anche se in questo caso non è possibile una vittoria militare; al processo di pace si può arrivare solo con accordo con talebani che abbiamo combattuto”. Un processo da concertare e concordare con gli alleati. “In questo quadro – ha aggiunto il ministro – con la pace che si avvicina e Trump che ha annunciato il ritiro americano, è chiaro che dobbiamo essere pronti a fare considerazioni anche di ritiro; vorremmo farlo incidendo sul processo di pace affinché non torni indietro: dovremmo fare una pace che non sia al ribasso”.

I NUMERI DELLA MISSIONE

Lanciata nel gennaio del 2015, la missione internazionale Resolute Support ha ereditato l’impegno della precedente Isaf, partita all’indomani dell’attacco dell’11 settembre come unico esempio nella storia della Nato dell’attivazione dell’art. 5 del Trattato del nord Altantico, quello che impegna gli alleati alla difesa collettiva. Rispetto alla missione precedente, Resolute Support è focalizzata su assistenza, addestramento e consulenza nei confronti delle Forze di difesa e di sicurezza afghane. Conta attualmente oltre 16mila unità, di cui 8.400 statunitensi, 1.300 tedeschi e circa 900 italiani. A questi numeri va aggiunto l’impegno che gli Stati Uniti hanno messo in campo nella missione bilaterale di contrasto al terrorismo in cooperazione con le Forze afghane, che li vede impegnati con circa seimila unità.

GLI ASPETTI TATTICI

Prese le decisioni politiche su un ritiro complessivo, sarà la volta dell’approccio strategico e tattico per il ritorno di assetti corposi. Come ci ha spiegato il generale Marco Bertolini, già comandante del Coi, della Brigata paracadutisti Folgore, nonché primo italiano ad aver ricoperto il ruolo di capo di Stato maggiore del comando Isaf in Afghanistan, non sarà facile, soprattutto per i tanti materiali presenti: “Molti degli equipaggiamenti più pesanti li abbiamo già ritirati nel 2015; altri li potremmo lasciare lì, visto che costa più trasportarli che ricomprarli nuovi”. Poi, “vi saranno da considerare le condizioni meteorologiche che potrebbero inibire la possibilità di impiego delle pista (visto che la via aerea è la più quotata per il ritiro, ndr), d’inverno per la neve e d’estate per le alte temperature che riducono al minimo le possibilità di carico dei velivoli”. Su tutto questo, sarà opportuno mantenere sempre al massimo la sicurezza, visto che delle forze in ripiegamento “sono obiettivo più appetibile” per i terroristi.

LA VIA D’USCITA

Difficile che si opti per la via terrestre per imbarcarsi nel Golfo, poiché costringerebbe a “coordinarci con gli iraniani, cosa che l’attuale amministrazione americana non apprezzerebbe”. Poco probabile anche “l’ipotesi del passaggio dal Pakistan fino a Karachi”, poiché obbligherebbe a dover proteggere lunghe colonne di mezzi in aree poco sicure. In altre parole, ha aggiunto Bertolini, “il mezzo aereo resta l’opzione obbligata”. Certo, non sono tanti gli aerei con grandi capacità di carico, con liste d’attesa che potrebbero essere anche molto lunghe. “Ci si dovrà cioè affidare agli americani C-17 o ai vecchi ma potenti Antonov e Ilyushin russi e ucraini, che generalmente – ha detto concludendo Bertolini – vengono affittati proprio per tali scopi da tutti i contingenti”.

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