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Non c’è dubbio che se un uomo esperto e prudente come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti evoca concreti scenari di crisi, le cose si mettono davvero male per il governo gialloverde. Ed è inutile mettere in campo la razionalità, che imporrebbe una riappacificazione fra i due vicepremier, almeno dopo le elezioni europee: la politica, come ho più volte detto su queste pagine, ha una sua logica ma non è certo quella della razionalità. Il “contratto” che ha dato vita al governo quasi un anno fa reggeva in effetti prima di tutto perché c’era un rapporto personale di “complicità” fra Luigi di Maio e Matteo Salvini; quello che oggi è saltato.

C’erano poi anche due elementi sostanziali, in verità, a far da cemento: la volontà di cambiare la classe dirigente del Paese, che gli oppositori (presunte “anime belle”) hanno chiamato “spartizione di poltrone”, e quella di rivedere i rapporti con l’Unione europea. Ma di fronte alla guerra intestina scoppiata in questi giorni anche quest’ultimo obiettivo sembra venir meno, con un improbabile europeismo pentastellato che fa da contraltare all’euroscetticismo leghista. In sostanza, lo scontro fra i due vicepremier sembra sia non solo un gioco delle parti teso a oscurare (anche e soprattutto mediaticamente) le forze di opposizione, ma segnala la perdita della fiducia personale che li legava.

È chiaro che, come succede fra due amanti che si sentono traditi, non solo non ci si parla più ma si finisce per provocarsi a vicenda. È come se fosse subentrato un elemento di stizza che porta a peggiorare di giorno in giorno i rapporti in un vortice autolesionistico che tutto travolge. Se poi a ciò si aggiunge l’illusione di poter sopravvivere all’avversario, e portare comunque avanti, in altro modo e con altre forze, le politiche di “cambiamento”, si capisce come per il governo di Giuseppe Conte non si preannuncino tempi facili. Fra l’altro, le forze del vecchio sistema, politico-mediatico-culturale, anche se non hanno un’idea per il Paese che non sia quella di un improbabile ritorno al passato, stanno affilando le armi, pronte a usare tutti i mezzi a loro disposizione per mostrare l’impasse del governo. Basta leggere la nuova Repubblica di Carlo Verdelli per farsene un’idea.

Certo, il partito di Salvini potrebbe giocare la carta di un ricomposto centrodestra, tendenzialmente maggioritario. Ma due elementi lasciano supporre che forse non è ancora giunto il tempo per questo che pure è il fine destinale della Lega: da una parte, la maggioranza dei seggi in un eventuale nuovo Parlamento non è affatto sicura, dall’altra, in Forza Italia le idee “antisovraniste”, veicolate solo in parte da Silvio Berlusconi, sono ancora forti e tali da creare ostacoli alla leadership salviniana.

Particolarmente delicato è in questo frangente il ruolo del presidente del Consiglio che, per quanto sempre più protagonista in prima persona, trova quotidianamente difficoltà a smorzare i toni e a dare un profilo unitario all’azione di governo. Fra l’altro, le scelte difficili, a cominciare ovviamente dalla legge di Bilancio, si avvicinano e solo un discorso sincero e unitario al Paese potrebbe farle superare in modo positivo. Conte teoricamente avrebbe l’autorevolezza e il consenso per farlo, ma non è dato sapere fino a che punto i suoi due vice lo lasceranno lavorare. Certo, se il governo dovesse cadere, non si vedono molte possibilità, anche se si votasse, per fare uscire il Paese dallo stallo. Ma è pur vero che in politica il vuoto esiste solo per essere riempito.

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Se Giorgetti evoca la crisi di governo, le cose si mettono male

Non c’è dubbio che se un uomo esperto e prudente come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti evoca concreti scenari di crisi, le cose si mettono davvero male per il governo gialloverde. Ed è inutile mettere in campo la razionalità, che imporrebbe una riappacificazione fra i due vicepremier, almeno dopo le elezioni europee: la politica, come ho più…

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