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Belgrado è pronta a riconoscere l‘indipendenza di Pristina? Questa la semplice, ma complicatissima, domanda che toglie il sonno non solo a Serbia e Kosovo ma anche ai destini europei dell’intero costone balcanico dove la frammentazione sociale, prima che politica, resta un elemento di forte instabilità (anche perché sommata ad altri fattori esterni ed interni come il caso del mercato unico).

Non solo le influenze commerciali di Pechino e Mosca, ma anche il rischio di contaminazioni militari come dimostra la pronuncia di un tribunale montenegrino contro alcuni 007 russi accusati di tentato golpe e il caso della Grande Albania.

SERBIA VS KOSOVO

Più passi indietro che in avanti. Non si risolve il puzzle nei Balcani legato ai rapporti terroriali tra Serbia e Kosovo, con la fuga in avanti di Pristina e l’amara constatazione di lady Pesc. L’obiettivo del tavolo da tempo apparecchiato tra i due soggetti, è il riconoscimento dell’indipendenza di Pristina da parte di Belgrado. Il premier kosovaro lo ha detto apertamente in tv ieri sera: “Il tutto deve avvenire all’interno dei confini già stabiliti”. Di qui l’assist (ma i realtà una richiesta) all’Ue, con le parole rivolte al commissario per la politica estera Federica Mogherini “di astenersi dal dialogo, e lei lo ha fatto”.

Ma proprio lady Pesc chiude e non vede spazi per la ripresa del dialogo. Il dossier è stato al centro del vertice eurobalcanico che si è tenuto a Tirana, in Albania, per ragionare a più cervelli sul rafforzamento della cooperazione regionale alla luce delle dispute ancora aperte. Presenti i leader di Slovenia, Croazia, Macedonia del nord, Serbia, Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Kosovo, oltre a Ledy Pesc per dare fiato al cosiddetto processo di Brdo-Brijuni avviato nel 2013 per l’integrazione europea di tutti i soggetti balcanici.

STOP AND GO

Da un lato le richieste sciorinate dal premier kosovaro Ramush Haradinaj, secondo cui non giungerà alcun pericolo dalla modifica dei confini senza Mogherini alla guida del dialogo. Dall’altro le reazioni di matrice non solo regionalistica ma anche continentale, che si intersecano con quel gioco di specchi che di fatto sta andando in scena nei Balcani.

Da Belgrado (dove l’asse con Mosca scorre sulla direttrice del gas), però, giungono le parole del presidente Aleksandar Vucic in occasione della festa militare di oggi, Giorno nazionale della Vittoria. Vucic presentando l’evento ha detto che le truppe dell’esercito e della polizia serbe sono sempre meglio preparate e equipaggiate, il che dovrebbe servire a scoraggiare potenziali aggressori contro la Serbia. Ha aggiunto che il bilancio della difesa non è mai stato più alto, rendendo più facile per un paese relativamente piccolo, indipendente e sovrano, condurre una politica indipendente. Per poi lanciare un messaggio: “La Serbia agirà responsabilmente e seriamente per preservare la pace e la stabilità” e citando il presidente jugoslavo Josip Broz ha detto, che “dovremmo vivere come se la pace durasse 100 anni, ma essere pronti per difendere il paese in qualsiasi momento”.

GRANDE ALBANIA?

“La Serbia è piccola, non stupida, gli albanesi sputano in faccia all’Unione europea”. Le parole del ministro degli Esteri serbo Ivica Dacic però non fanno ipotizzare una strada in dicesa per il dossier-Balcani, proprio perché incastonate in una fase in cui si cerca il dialogo con Pristina e Tirana. L’accusa rivolta agli albanesi è di voler costituire la cosiddetta Grande Albania, un progetto nazionalista espansionista a spese dei confinanti. Ecco perché Dacic chiede una “forte risposta” all’incontro tra il presidente del Kosovo Hashim Thaci e il primo ministro albanese Edi Rama tenutosi mercoledì scorso a Tirana.

L’incontro tra Rama e Thaci, ha tuonato, appresenta “l’apice dell’insolenza dei politici albanesi, perché durante il summit di Brdo-Brijuni dove si parla della cooperazione regionale, si parla anche di correggere le cosiddette ingiustizie storiche”. E si chiede dove siano oggi coloro che hanno criticato la Serbia per le proposte di nuove delimitazioni.

STALLO

Uno stallo in cui si infilano le influenze straniere, pronte a sfruttare l’impasse per il risiko del costone balcanico. Contestano in sostanza gli eventi nel nord della Macedonia e puntano a contrastare l’azione pro Nato e Ue. Come in Montenegro, dove un tribunale ha dichiarato colpevoli 14 spie russe di un tentativo di colpo di stato per prendere in consegna il parlamento e assassinare il primo ministro, al fine di istituire una direzione pro-Russia e anti-Nato.

Tra i condannati figurano due ufficiali dell’intelligence militare russa Eduard Shishmakov e Vladimir Popov, due leader dell’opposizione montenegrina Andrija Mandic e Milan Knezevic, nove cittadini serbi e un altro montenegrino: la richiesta è di una pena fino a 15 anni di carcere dopo essere stati riconosciuti colpevoli di aver tentato di rovesciare il governo.

Secondo i giudici il pool avrebbe avuto l’intenzione di prendere il Parlamento il 16 ottobre 2016 e assassinare l’allora primo ministro Milo Djukanovic. Quest’ultimo, al potere ininterrottamente da 25 anni, era anche stato attenzionato dalle procure italiane di Bari e Napoli per traffico internazionale di sigarette ma l’immunità diplomatica non aveva schermato. Il Montenegro era stato definito nel 2016 dal Foreign Office Usa “Stato mafioso” e il premier etichettato come “criminale dell’anno”. Mosca nega qualsiasi coinvolgimento, derubricando le accuse come “assurde”. Anche Mandic e Knezevic hanno respinto il verdetto annunciando appello.

twitter@FDepalo

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