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Mentre lo scontro tecnologico e commerciale Usa-Cina è ben lontano dal concludersi, Huawei – una delle aziende di punta della Repubblica Popolare, al centro del braccio di ferro in atto fra Washington e Pechino – non lascia, ma raddoppia. Lo fa, non a caso, in Italia, una delle nazioni del Vecchio continente che più di altre sembra cedere alle lusinghe economiche – ma dai forti risvolti politici – del fu Celeste impero, che ambisce a ritornare tale e che forse vede in Roma uno degli strumenti da utilizzare per raggiungere l’ambizioso obiettivo.

L’ANNUNCIO DI HUAWEI

Dopo gli annunci governativi di alto profilo fatti durante il Financial Forum bilaterale tenutosi a Milano, oggi in occasione dei 15 anni di attività della telco cinese nel nostro Paese, l’amministratore delegato del colosso di Shenzhen nel Paese, Thomas Miao, ha detto sempre nel capoluogo lombardo che la compagnia investirà nella Penisola nei prossimi tre anni oltre 3,1 miliardi di dollari (all’incirca 2,75 miliardi di euro). Di questi denari, non pochi, 1,9 miliardi andranno in acquisito di forniture e 1,2 in marketing e operations, nonché oltre 50 milioni in ricerca e sviluppo. Il tutto condito da promesse occupazionali, con la previsione di creare tra il 2019 e il 2021 in Italia 1000 nuovi posti di lavoro (3mila con l’indotto). Senza contare le varie partnership con diversi atenei, ultimo quello di Pavia, con cui realizzerà il Microelectronics Innovation Lab, con un investimento di 1,7 milioni di dollari. Tutto bene, dunque? Non proprio, perché ci sono almeno un paio di interrogativi che rendono la crescente presenza del gigante asiatico in Italia un dossier da maneggiare con cura e attenzione.

IL PESO DI PECHINO

Il primo, sollevato in diverse occasioni da Formiche.net, riguarda il peso che l’eccessiva esposizione concessa dall’Italia con l’adesione quasi incondizionata alla Belt & Road Initiative (l’infrastruttura geopolitica con cui Pechino progetta di collegarsi all’Europa (ma anche all’Africa e altre varie regioni del mondo, non ultima l’Artico, dunque è qualcosa che ha il perimetro di un piano globale) prima, e agli investimenti strategici di aziende cinesi ora, possa avere spostando Roma troppo verso Oriente. E Washington, ha ricordato tra gli altri il politologo americano Edward Luttwak in una recente intervista a questa testata, considera questo un punto dirimente per la costruzione di solidi rapporti tra il governo italiano e l’attuale amministrazione Usa (più delle pur problematiche relazioni con la Russia, di cui si è tornato a discutere dopo l’audio dell’incontro di Savoini a Mosca pubblicato da Buzzfeed).
Nei timori statunitensi, infatti, non c’è solo l’eccessiva penetrazione economica cinese in atto, ma, soprattutto, le pressioni politiche che ne possono gli effetti che questa può avere a medio e lungo termine sulle scelte italiane.
Qualche caso sul quale è lecito nutrire dubbi, ha ricordato Emanuele Rossi su queste colonne, c’è già stato e non è incoraggiante: ad esempio i silenzi di Roma sul soffocamento di Pechino alle proteste di Hong-Kong, sulla delicata situazione di Taiwan. E altri ancora. Tutti dossier che necessiterebbero una presa di posizione chiara a difesa dei diritti civili, in linea con quanto fatto dagli alleati occidentali, ma sui quali non si sente proferir parola (o avviene tardivamente).

IL TEMA SICUREZZA

Il secondo, con specifico richiamo a Huawei, riguarda le tensioni che da tempo vedono opposta l’amministrazione americana alla telco cinese, considerata dai servizi di sicurezza Usa un potenziale veicolo di spionaggio a beneficio della Repubblica Popolare, soprattutto per effetto di una legge nazionale sull’intelligence che obbliga le aziende cinesi a collaborare con la madrepatria. Washington ha chiesto da tempo ai suoi alleati di ritenere un pericolo il fatto che i colossi di Pechino possano partecipare all’implementazione di tecnologie sensibili, per ultime le nuove reti mobili ultraveloci di quinta generazione. Un’eventualità che potrebbe persino portare gli Stati Uniti a limitare l’information sharing con i suoi partner.
Non è una coincidenza che, proprio mentre presentava i suoi investimenti, la telco cinese abbia lanciato un messaggio sul tema. “Voglio chiedere”, ha detto Miao, “regole trasparenti, efficienti e giuste” sull’applicazione del Golden power per il 5G in Italia, aggiungendo che il provvedimento adesso “si limita solo ai fornitori non europei”, mentre, ha sottolineato, “dovrebbe essere rivolto a tutti perché la tecnologia è neutrale, non è legata a questioni geopolitiche”. Ma su questo, come su altri punti, a livello internazionale ci si attende che l’Italia non si faccia condizionare dalla pressione di Pechino, impedendo che le risorse economiche possano trasformarsi in scelte politiche dagli importanti ripercussioni di sicurezza.

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