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La Cina sta finanziando e costruendo scuole di leadership in diversi Paesi africani come parte di una strategia più ampia per espandere la sua influenza sul continente. Queste scuole, come la Mwalimu Julius Nyerere Leadership School in Tanzania, sono progettate per formare funzionari dei partiti al governo, in particolare in Paesi come Sudafrica, Zimbabwe, Tanzania, Angola, Namibia e Mozambico, dove la narrazione costruita dal Partito Comunista Cinese (PCC) attecchisce per intesa ideologica oltre che per interessi di gestione del potere. Jevans Nyabiage sul South China Morning Post spiega che queste attività sono in aumento, segno anche di come la Cina si stia espandendo nel contesto politico — e non solo commerciale o infrastrutturale — del continente.

Cosa si insegna?

I curricula di queste scuole sono fortemente incentrati sui principi e le pratiche del PCC, una visione del mondo con caratteristiche cinesi. Vengono insegnati argomenti come la gestione del partito, la disciplina interna, le misure anticorruzione, e il “Pensiero di Xi Jinping“. L’obiettivo è consolidare la supremazia del partito sugli apparati statali. Questi corsi sono spesso erogati da istruttori cinesi affiliati a scuole di partito in Cina, mentre lo staff locale può affrontare temi come il panafricanismo e la gestione del settore pubblico.

A cosa servono?

Queste iniziative servono a promuovere il modello cinese di governance centralista e dunque sono un vettore profondo e affilato per diffondere un modello. Modello che è agli antipodi della strutturazione democratica degli Stati di diritto occidentali, che infatti Pechino combatte a colpo di azioni e narrazioni. Attraverso la formazione impartita anche in Africa, la Cina mira a creare una rete di leader locali, ma internazionali, che adottino pratiche e ideologie simili a quelle del Partito/Stato, rafforzando così i legami politici e strategici a lungo termine tra la Cina e i Paesi africani. Spostandoli su certe visioni del mondo, automaticamente Pechino ottiene un allontanamento dal dialogo degli africani con l’Occidente, perché nel racconto del proprio modello è insita la critica a quello opposto.

Questa strategia è anche parte integrante della Belt & Road Initiative (BRI), e della più ampia strategia per cercare di rafforzare le relazioni con quello che l’Occidente definisce “Sud globale”. È da sempre noto infatti che l’infrastruttura geopolitica pensata da Xi — a cui anche l’Italia aveva aderito nel 2019, abbandonandola poi durante quest’anno — è stata pensata non solo per costruire strade, ponti e porti, ma per esercitare influenza e strutturare collaborazioni sempre più strette.

Contrasto all’influenza occidentale?

L’educazione dei mandarini africani, abbinata agli allettanti progetti della Bri, sono modi con cui Pechino offre ai leader africani opportunità per gestire e mantenere il proprio potere. In cambio chiede lealtà e cooperazione secondo varie forme che vanno dall’utilizzo delle risorse all’apertura commerciale, fino all’allineamento di posizioni quando gli interessi cinesi sono in discussione all’interno dei sistemi multilaterali (per esempio nelle strutture onusiane o in generale quella multilaterali che determinano i processi di governance internazionale).

Mentre le potenze occidentali spesso promuovono la democrazia multipartitica e le riforme economiche liberali, il modello cinese offre un’alternativa che combina lo sviluppo economico con controllo autoritario. Questo modello risulta attraente per molti leader africani che cercano di mantenere il potere e garantire la stabilità politica senza le incertezze che possono derivare da un sistema democratico multipartitico. Ossia, l’offerta cinese è più comoda per chi ha il potere. Venduta con la giusta propaganda (anche contro l’Occidente) sfama le richieste delle masse — e trova a Mosca una sponda narrativa, sebbene la Russa in Africa si muova in termini meno ideologici e più meramente pragmatici (risorse, sicurezza, difesa).

Implicazioni per il Piano Mattei

È consequenziale che la crescente influenza della Cina in Africa potrebbe rappresentare un problema per il cosiddetto “Piano Mattei”, ossia il brand con cui l’Italia punta a rafforzare le relazioni con il continente attraverso lo sviluppo sostenibile e partenariati equi. Lo schema, che il governo Meloni sta faticosamente riempiendo di contenuti dopo averlo lanciato a gennaio 2024, è particolarmente apprezzato da alleati come gli Stati Uniti, perché ne percepiscono il valore anche nell’ottica del contenimento cinese.

Ma se i leader africani saranno sempre più attratti e istruiti al modello cinese, basato su quell’utilitaristico controllo statale e partito-centrico, le iniziative come il Piano Mattei, che promuovono governance democratica e diversificazione economica, potrebbero incontrare resistenze. “Di fatto, il successo del Piano Mattei dipenderà anche dalla capacità di offrire un’alternativa convincente e sostenibile al modello proposto dalla Cina”, spiega una fonte diplomatica, che per esprimere certe posizioni preferisce restare anonima. È per questo che l’Italia e l’Unione europea stanno spingendo su iniziative anche di carattere culturale ed educativo, oltre che su investimenti economico-commerciali e infrastrutturali in Africa.

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