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“L’Italia dovrebbe dire ‘sono pronta a morire per la Libia’, ma non lo fa. E così rischia di essere sbattuta fuori dalla partita”. Questa l’opinione di Karim Mezran, senior fellow dell’Atlantic Council e uno dei massimi esperti in circolazione di Libia, che da Houston ragiona con Formiche.net non solo sul mancato ruolo italiano nella crisi libica, ma anche sul perimetro della nuova azione americana che potrebbe portare in grembo altri effetti, con sullo sfondo gli attriti tra Casa Bianca e Pentagono.

A cosa punta la strategia di Trump in Libia?

Secondo me non c’è una strategia di Trump in Libia, ma solo l’estemporaneità della Casa Bianca e dei contatti americani che stanno avendo una certa influenza. La politica ufficiale del Pentagono e del Dipartimento di Stato è un’altra cosa e fra le due non vedo un grande coordinamento, anzi denoto un certo attrito con il Consigliere per la sicurezza nazionale, John Bolton. Per cui avremo una definizione di azioni e obiettivi al massimo nei prossimi due giorni al termine degli incontri tra lo stesso Presidente e Mike Pompeo.

Perché gli Stati Uniti riportano Africom a Misurata (il cuore delle forze anti-Haftar)?

Una mossa che indubbiamente ha una sua simbologia, ma ancora non è decisiva, anche perché la posizione Usa non è cambiata e resta al fianco di Serraj. Purtroppo, come trapela da ambienti diplomatici, si osserva una certa confusione. La politica americana al momento non è ponderata, né coordinata.

Con quali conseguenze?

Che nulla accada su suolo libico, dove si lascerebbe mano libera ai francesi. Tra l’altro da più parti vengono confermate le voci che vogliono soldati russi presenti in Libia. Ricordiamo che il paese è pieno di rumors e di sussurri, per cui è spesso difficile capire. Ma quando le voci si moltiplicano vuol dire che un fondo di verità c’è.

Che spia è?

Che c’è un forte appoggio di Francia, Egitto, Emirati e Russia al fianco di Haftar. Per cui manca una politica americana in opposizione a quello scenario, che impedisca i rifornimenti alle forze del generale. Sarebbe un passo fondamentale, ma al momento non sono sicuro che gli americani lo vorranno fare. Se però lo facessero, sarebbe una soluzione, perché così limiterebbe il supporto esterno all’uomo forte della Cirenaica che a quel punto, non avendo nulla di suo, resterebbe nudo.

Il governo riconosciuto dall’Onu chiede l’appoggio della comunità internazionale. Troppo tardi?

Assolutamente, è da due anni che glielo diciamo. Sarebbe stato utile creare già ieri una struttura a Washington, Londra o Parigi per presentare adeguatamente la posizione del governo alle varie capitali. Non è stato mai fatto e oggi inviano Sanallah, numero uno di Noc, negli Usa per parlare con gli americani in un momento particolarmente critico. Non so quanto possa rendere.

Cosa rischia l’Italia se abbandona Serraj?

Roma ha una posizione, se possibile, ancora più preoccupante con quella dichiarazione del premier Conte che mi ha ghiacciato. L’Italia perseguendo su questa linea rischia di non contare più nulla, di essere messa definitivamente fuori dai destini libici, di perdere qualunque appoggio. Avrebbe invece dovuto fare da contraltare agli altri quattro players stranieri, si sarebbe dovuta presentare con un tono compatto dicendo “sono pronta a morire per la Libia perché è un mio fronte di interesse nazionale”. Tenendo così una posizione rigida per poi mostrare la possibilità di negoziazione. Invece non lo ha fatto. Ha ragione Varvelli quando dice che contiamo se saremo capaci di avere un indirizzo verso gli altri attori. Inoltre Haftar non sarà mai un uomo vicino all’Italia né coltiverà i nostri interessi, per cui Roma rischia di mandare al potere un individuo che gli è contrario.

Più sensata la richiesta al governo italiano per imporre una No Fly Zone nel paese, a protezione dei libici, da gestire in ambito Nato?

Sarebbe un’ottima cosa. Molti miei colleghi sono contrari, mentre io sono estremamente favorevole. Ma andrebbe fatta fino in fondo. In quel caso, con la regia della Nato che impedisca davvero il volo di tutti gli aerei, si toglierebbero appoggi ad Haftar riducendolo al suo solo potere militare.

Che spinta stanno dando Emirati ed Egitto?

Sarebbero rimasti molto più soddisfatti se il generale si fosse preso l’est della Libia e lì fosse rimasto. Ma Haftar, va ricordato, è un nazionalista, ha fatto saltare la conferenza nazionale con il suo attacco a Tripoli, perché conscio che dopo quell’appuntamento se ne fosse uscito con i galloni di capo avrebbe avuto un esercito molto limitato e il contesto internazionale gli sarebbe andato contro. E l’ha fatta saltare con l’improvvisa boutade dell’attacco a Tripoli di cui però non ha avvisato né emiratini né egiziani. Di questo ne sono convinto.

Su quali basi?

Beh, tutte le dichiarazioni straniere immediatamente successive al primo attacco sono state di panico e condanna, anche quelle russe. Nessuno era davvero contento. Haftar si è fatto dare una sorta di vago nulla osta dai russi e dai sauditi e ha provato la sua mossa. Poi quando ha chiesto aiuto perché in difficoltà, sono giunti in suo sostegno. In questo va rimarcata anche una forte contraddizione di Haftar, personaggio particolare, certo di poter entrare a Tripoli per via dell’appoggio di alcune bande, che poi hanno fatto marcia indietro. In una successiva imboscata ha poi perso 200 dei suoi uomini. Per cui credo sia stata un’offensiva male organizzata.

A questo punto l’inviato speciale dell’Onu Ghassan Salamè che margini di manovra ha?

Il rischio è che perda efficacia. C’è una foto che gira su twitter che ritrae Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, che sembra inchinarsi ad Haftar. Secondo alcuni diplomatici è un’icona più dannosa di mille battaglie perse.

twitter@FDepalo

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