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Dominick Salvatore, professore della Fordham University, è un luminare dell’economia internazionale. Lo abbiamo incontrato a Roma a margine del convegno della Fondazione Economia Tor Vergata a Villa Mondragone. Il G20 di Osaka ha aperto le danze, e tutti vogliono sapere che ne sarà della guerra commerciale fra Stati Uniti e Cina. “Io so come andrà a finire – ci dice lui – ma non posso dire tutto”.

Professore, almeno un pronostico.

Il bivio è semplice. Se i cinesi smettono di fare commercio internazionale alle spese degli Stati Uniti Trump, come ha già fatto al G20 di Buenos Aires, accorda una tregua sospendendo i dazi del 25% su 300 miliardi di esportazioni da Pechino.

Altrimenti?

Se entro un mese non si trova un accordo Trump sarà costretto a confermare i dazi. Le regole del Wto parlano chiaro: se riesci a provare che un altro Paese ti sta sfruttando giocando sporco puoi imporre i cosiddetti countervailing duties sulle sue esportazioni.

Parla come se Trump avesse il coltello dalla parte del manico.

Non lo dico io, lo dicono i numeri. Gli Stati Uniti esportano 130 miliardi di dollari in merci in Cina e dai cinesi importano 600 miliardi di dollari. C’è un dislivello evidente. Gli americani pagheranno anche i dazi sulle esportazioni, ma Trump può rimborsare le aziende colpite con i dazi raccolti sulle importazioni cinesi.

Il governo cinese accusa Trump di giocare sporco.

Trump si sta difendendo. Ha già dimostrato al Wto che il governo cinese non rispetta una delle sue regole. La Cina fu ammessa nell’organizzazione nel 2001 con la promessa che ne sarebbe diventata membro effettivo dopo quindici anni qualora si fosse trasformata in un’economia di mercato.

E poi?

Fino al 2013 la direzione è stata giusta. Da quando è arrivato Xi al potere la Cina ha invertito completamente la rotta. Credere che si sarebbe adeguata alle regole del mercato fu, per stessa ammissione del governo cinese, un’ingenuità.

Riformare il Wto è una soluzione?

I meccanismi di risoluzione per le controversie ci sono. Peccato che la Cina non li rispetti. È inutile portare il governo cinese di fronte al Wto, perché non riconosce le sue regole.

Ci fa un esempio?

Anzitutto per investire in Cina le aziende straniere sono costrette a cedere tecnologia. Una pratica espressamente vietata dalle regole del Wto. Il governo cinese si difende parlando di cessione volontaria, ma non lascia alcuna libertà di scelta. Secondo poi, la Cina continua ad appianare il suo svantaggio concorrenziale con gli Stati Uniti elargendo sussidi alle sue aziende e imponendo dazi unilaterali del 30-40% sulle importazioni.

I cinesi muovono all’amministrazione Trump le stesse accuse.

Bene. Perché allora il governo cinese non ha mai portato l’amministrazione Usa di fronte al Wto? Glielo dico io. Perché sanno che sono i primi a non rispettarne le regole.

Trump ha promesso sanzioni contro chi farà affari con Huawei. I cinesi hanno risposto minacciando una black list di aziende americane. Si arriverà fino in fondo?

La Cina sta cercando di reagire ma non tratta da una posizione di forza. Il governo cinese sta pagando il prezzo più alto. Apple e Google hanno sottratto i loro software a Huawei, che entro il 2020 perderà 30 miliardi di fatturato. Qualcomm non invierà più i suoi chip, che i cinesi da soli non sanno costruire. Diverse aziende europee stanno rifiutando di collaborare con Huawei sul 5G.

Huawei sembra non dare troppa importanza a questi eventi.

È quel che vogliono far trasparire, ma non ci credono davvero. Quando Zte sospese le vendite di chip per computer negli Stati Uniti più di 80.000 persone sono state licenziate.

Alla battaglia sui dazi se ne aggiunge un’altra per Trump giocata in casa: quella sui tassi. Le stoccate al presidente della Fed Jerome Powell non si contano più.

Su questo Trump ha torto. L’autonomia della Fed non può essere messa in discussione. In effetti non è neanche sicuro che il presidente abbia il potere di rimuovere Powell. Che infatti non solo non intende ridurre i tassi, ma ha annunciato di volerli alzare.

Anche Draghi è nel mirino di Trump. Un giorno lo accusa, il giorno dopo lo vorrebbe a capo della Fed. L’italiano avrebbe il suo sostegno per candidarsi a guidare il Fondo Monetario Internazionale?

Draghi è l’uomo che ha salvato l’euro, raggirando Weidmann e le regole della Bce, Trump questo lo sa. Gli Stati Uniti hanno un grande potere sulla Banca Mondiale, ma credo che sul Fondo Monetario Internazionale l’Europa avrà l’ultima parola.

Torniamo a Osaka. Giuseppe Conte è in cerca di sponde europee per evitare la procedura d’infrazione Ue. Come andrà a finire?

Credo che l’Ue non abbia alcuna intenzione di avviare una procedura d’infrazione contro l’Italia. Sa benissimo che saranno i mercati e lo spread a costringerla a rispettare i vincoli su indebitamento e spesa pubblica. Per questo la Commissione sta prendendo tempo.

Il governo italiano sembra tenere la barra dritta.

L’Italia è indebitata fino al collo. Dovrebbe ritenersi fortunata ad avere le istituzioni Ue a ricordarglielo. Se non esistessero vincoli il debito finirebbe fuori controllo. È successo in Portogallo e in Grecia, e le cose si sono messe male.

Di Maio e Salvini sono sicuri che i loro stimoli alla crescita ridurranno il debito.

È sbagliata la filosofia di fondo. Il reddito di cittadinanza risponde a una giusta esigenza, ma non si può considerare uno stimolo alla crescita. Se fosse così facile, perché invece di 500 o 700 euro al mese non darne 2000 o 3000? Perché ha un costo. Bisogna dare a ogni cosa il suo nome. Come i minibot. Che sono moneta illegale, oppure altro debito, nient’altro.

E della flat tax di Salvini che idea si è fatto?

Salvini fa bene a voler abbassare le tasse. Il paragone che fa con gli Stati Uniti però non regge. L’economia americana è più flessibile, risponde agli stimoli per la crescita. In Italia la flat tax non è sufficiente.

Trump, Xi, Conte e Ue. I pronostici di Dominick Salvatore sul G20

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