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QUANDO COMPARVE

Ve la ricordate tutti quando comparve, nel 2016, con una cesta di capelli argentati e atteggiamento baldanzoso? Nella prima immagine che ho registrato di lei, Theresa May indossa delle scarpe maculate, sembra molto alta e trasuda ostinazione. La sua grammatica, asciutta ed elementare: We will deliver Brexit; Brexit means Brexit. “Il solito dramma delle donne al comando” ricordo di aver pensato “tutta la vita travestite da sceriffi per mostrare di essere toste quanto un maschio. Che noia. Menomale, almeno, per le scarpe maculate”.

Stacco.

Siamo nella primavera del 2019, una giornata assolata splende su Londra, alla fine di un discorso dignitoso, politicamente non memorabile, forse, ma apparentemente molto sentito, la May rassegna le proprie dimissioni, – “I will shortly leave the job that has been the honour of my life to hold. The second female Prime Minister, but certainly not the last. I do so with no ill will, but with enormous gratitude to have the opportunity to serve the country I love” – la voce si rompe, scoppia in lacrime, e abbandona la scena senza neanche concedere un cenno di saluto.

Nel mezzo, tra queste due immagini – tra la poliziotta baldanzosa e la donna che rientra in lacrime dentro al numero 10 di Downing Street – è cambiato il mondo, è cambiata l’Europa, e abbiamo assistito al caos e allo smarrimento della politica britannica. Riassumiamo, molto velocemente, ma partendo (quasi) dal principio.

L’INIZIO DELL’AVVENTURA POLITICA DELLA MAY

Nel luglio del 2016, a distanza di qualche settimana dal voto del Referendum che ha segnato la storia dell’Inghilterra, e forse di tutti noi che guardavamo costernati, Theresa May viene nominata Primo Ministro, con l’impossibile compito, pezzetta alla mano, di ripulire il sangue lasciato a terra da altri (entrambi spariti: l’uno nei club più esclusivi di Myfair, l’altro nelle file del Parlamento di quell’Europa che dichiarava di voler abbandonare a ogni costo) e di condurre l’Inghilterra nel suo viaggio fino alla Brexit.

Come prevedibile da tutti, tranne che dai saggi promotori dell’uscita (di cui, attenzione, Theresa May neppure faceva parte), il viaggio si è rivelato travagliato e pieno di ostacoli, e ha portato alla luce, da un lato, l’assoluto caos istituzionale e la mancanza di progettualità della Gran Bretagna; dall’altro lato, un atteggiamento europeo ai limiti della perfezione: severa ma giusta, l’Europa non ha ceduto neppure di un millimetro sui contenuti e sui principi, ma ha saputo evitare di infierire, e persino mostrarsi solidale, quando è stato necessario. Forse anche per questo, il Withdrawal Agreement negoziato tra Uk e Unione Europea – che essenzialmente rappresenta al 90% le posizioni di quest’ultima – è stato bocciato per ben tre volte dal Parlamento britannico, costringendo Theresa May a domandare, testa calata, un’estensione del termine dei due anni previsto dal Trattato per l’uscita: ogni volta sull’orlo del burrone del no deal, ogni volta graziosamente concesso all’unanimità dagli Stati membri.

LE DIMISSIONI 

In questo clima di delirio, le elezioni amministrative si sono tradotte in un bagno di sangue e in una punizione senza precedenti inflitta dai cittadini alla propria classe politica, tanto ai conservatori (per loro il peggior risultato di sempre) quanto ai Labour.
La fotografia del Paese, in altri termini, rappresenta una crisi istituzionale mai sperimentata prima e le dimissioni di Theresa May, di fatto, sono state un atto obbligato, semmai procrastinato per troppo tempo. Al suo abbandono, adesso, seguirà molto probabilmente un round di consultazioni sul nuovo Primo Ministro che conduca all’individuazione di due candidati entro la fine di giugno, e a un nuovo numero 1 di Donwney Street entro la fine di luglio – e questa volta, ci si potrebbe scommettere, si tratterà di un Taliban dei brexiters – tra i più gettonati ci sarebbero il giovane Dominic Raab, o l’immancabile Boris Johnson.

I COMPITI DEL NUOVO PRIMO MINISTRO

Chiunque sia il prossimo nome, in ogni caso, al nuovo Primo Ministro andrà l’ingrato compito di traghettare l’Inghilterra verso Brexit, entro e non oltre il nuovo termine del 31 ottobre 2019, che plausibilmente non sarà suscettibile di ulteriori allungamenti. Ma, a tal proposito, Boris Johnson ci ha già fatto sapere che questa nuova deadline sarà rispettata, costi quel che costi, e che la Uk uscirà dall’Europa “con o senza deal”: non esattamente una buona notizia, se si pensa che l’uscita senza accordo è precisamente ciò che tutti i player di questa vicenda Brexit hanno tentato con ogni sforzo di scongiurare. Ivi inclusa Theresa May. Che scoppia in lacrime all’atto di dimettersi.

Theresa May, la cui voce si inizia a rompere quando dice – ammette – “non sono riuscita”: “It is, and will always remain – dice – a matter of deep regret to me that I have not been able to deliver Brexit”.

E noi lo conosciamo bene quel pianto Theresa, e anche se in questi anni (scarpe, qualche danza improvvisata e alcuni outfit alquanto sorprendenti esclusi) abbiamo passato il tempo a detestarti, adesso un abbraccio e una pacca sulla spalla te li daremmo pure. Perché, al di là del giudizio sul merito delle tue azioni, lo sappiamo che dietro a quella rottura degli argini, a quel maledetto incontrollabile crollo nervoso, c’è tutto il tremendo senso di inadeguatezza di non avercela fatta, nonostante gli sforzi sovrumani, e anche la severità con cui per questo ti condannerai, dopo l’ostinazione, dopo la perseveranza.

LE LACRIME DELLA MAY

La consapevolezza di non essere stata abbastanza brava, di non essere stata all’altezza, tutta la delusione di dover dire “questa volta non sono riuscita”.

Sappiamo bene che dietro a quelle lacrime c’è lo smarrimento delle donne che investono tutte loro stesse in un obiettivo –  non importa quanto costi in termini di abnegazione e fatica – e che dal raggiungimento di quello scopo finiscono per far spesso dipendere tutta la considerazione che hanno di sé stesse. L’abbiamo provato in tante, quel senso di sconfitta personale nell’universo professionale, forse solo avendo la fortuna di poter piangere chiuse in qualche bagno, e non in mondovisione. Le cose non sono andate come avevi previsto, questo lo abbiamo capito. È andata male.

È andata male perché non è vero (perché è una leggenda!) che la durezza è sempre la chiave giusta per raggiungere un obiettivo nel migliore dei modi. Al contrario, all’essere duri, c’è sempre qualcuno più duro di te, e, nel frattempo, a sprecare il tempo per gestire l’esacerbazione, si finisce al 29 marzo 2019 senza avere in tasca un accordo per uscire dall’Unione Europea.

È andata male perché il mondo ha una grammatica complessa. La realtà che ci circonda è complessa, pone quesiti complessi, e ai quesiti complessi non può rispondersi con dichiarazioni d’intenti più o meno forti, ne’ con le questioni di principio, ne’ con ottusa ostinazione. Perché nella politica, come nella vita, ci dovrebbe essere sempre spazio per i ripensamenti in buona fede, e per le seconde occasioni, per la possibilità di ponderare e riponderare una decisione affrettata, o disinformata. Anche questa è democrazia, anche la responsabilità di guidare una riflessione collettiva rientra nel ruolo di un politico.

È andata male perché in un mondo la cui unica speranza si fonda sull’unirsi, le separazioni non possono che essere violente e dolorose. È andata male anche perché l’Europa è la nostra casa, “l’unica utopia realizzabile”, e al sentirla minacciata, abbiamo camminato uniti.

E questo, da adesso in poi, non ce lo dimenticheremo mai, proprio come l’immagine del Primo Ministro inglese rientrare in lacrime al numero 10 di Downing Street.

Cremlino, brexit

Anche le Theresa May piangono

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