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Ci risiamo. È una vecchia storia quella che si vede in questi giorni al Salone del libro di Torino. E non concerne solo questa manifestazione, ma la più parte dei festival più o meno “culturali” che si svolgono in giro per l’Italia durante tutto l’anno. I quali sono a tutti gli effetti uno dei più potenti strumenti in mano a una certa ideologia a “pensiero unico” che decreta a priori, in barba a ogni idea “universalistica” di cultura, ciò che è politicamente corretto o scorretto fare o non fare. Un pensiero che, in nome di ideali politici e non culturali, include ed esclude a proprio piacimento, o semplicemente lancia anatemi che, in qualche modo, servono al “branco” degli adepti per riconoscersi.

Quest’anno a farne le spese sono stati giornalisti di spessore come Francesco Borgonovo, Alessandro Giuli, Adriano Scianca, e persino il mio colto e mite editore Francesco Giubilei. Tutti rei secondo Christian Raimo, che non si capisce a quale titolo sedeva fino a ieri (sembra si sia ora dimesso) nel CDA del Festival, di leso antifascismo. Mentre il direttore Nicola Lagioia (nella foto) ha addirittura parlato di “intimidazioni” dopo la legittima presa di posizione contro la fatwa del sottosegretario ai Beni culturali, Lucia Bergonzoni. Un’accusa ad personam e del tutto pretestuosa, e in qualche modo essa stessa “fascista”, quella di Raimo, sol che si pensi a come in Italia in questo mondo intellettuale sia ancora vigente l’assurda equazione che chi non è a sinistra, e casomai è un classico conservatore all’inglese come Giubilei, per ciò stesso sia da considerarsi “fascista”.

Con questo non voglio dire che al festival non ci saranno anche quest’anno come protagonisti intellettuali di grande spessore, ma, vuoi per quieto vivere e mancanza di coraggio vuoi per adempiere a una sorta di “ritualità” magica, anche loro soggiacciono, non facendo sentire la loro voce e casomai firmando “appelli”, a certi diktat del tutto campati in aria. Devo dire che, dopo aver molto scritto sul tema di questa “egemonia culturale” negli anni passati, mi annoia alquanto ripetermi. Non lo farò, ma farò invece qui due considerazioni a margine che non ritengo inessenziali.

La prima è che imputo al centrodestra, sia a quello di Silvio Berlusconi sia all’attuale, di aver sempre sottovalutato il peso (che non si misura elettoralmente a breve termine) del mondo culturale. Che in tutti questi anni è stato per così dire “appaltato” a certa sinistra faziosa, creando fra l’altro una dissimetria fra il comune sentire e quell’ambito della vita sociale che rimane ancora governato (e la cultura non dovrebbe esserlo) da una “casta” e per giunta politicizzata. Perché non rivedere certi meccanismi di finanziamento e certe nomine nei CDA in modo più equo e culturalmente accettabile?

E qui veniamo all’altro punto. Il rischio è che però anche la destra, persino quella più moderata, concepisca questa operazione come una “rivincita”. No, non si tratta di sostituire a una cultura di sinistra una di destra, ma di spoliticizzare la cultura nella misura del possibile e di essere più pluralisti quanto proprio non si può fare altrimenti. Chi saprà assumersi questo compito non saprei, ma ritengo che oggi sia del tutto improcastinabile. Anche perché se la cultura si fossilizza e diventa un mainstream melenso e preimpostato, a sentirne è poco alla volta lo spirito pubblico del Paese..

La fatwa del Salone del libro di Torino è anche colpa del centrodestra

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