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La Corea del Nord ha sparato in mare una salva di missili a medio-corto raggio tra le 9:06 e le 9:27 di questa mattina (ora locale, in Italia era notte) dalle coste di Wonsan (indicatore rosso in foto, ndr), est di Pyongyang; i missili sono caduti nelle acque che guardano al Giappone dopo aver percorso tra i 70 e i 200 chilometri.

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Le notizie di carattere qualitativo sono state immediatamente fornite dalle forze armate sudcoreane, che prima hanno diffuso uno statement parlando di “un missile”, poi in un secondo è stato scritto “projectile“: il New York Times fa notare che questo tipo di terminologia viene utilizzata da Seul quando è ancora troppo presto per determinare la tipologia tecnica dei razzi. Che è un argomento importante, perché questo lancio – tipico di un anno e mezzo fa, quando la situazione attorno al regime del Nord era guerresca – arriva in un momento delicatissimo.

I negoziati per la denuclearizzazione avviati dall’apertura olimpica sudcoreana del febbraio 2018, proseguiti con l’inserimento americano nell’orbita del dialogo, e culminati nei faccia a faccia tra Donald Trump e Kim Jong-Un sono sostanzialmente in stallo da mesi. Se i due leader s’erano lasciati dall’incontro di Singapore con una serie di buoni propositi – molto spinti anche per necessità politico-elettorali, sia da Washington che da Seul – l’ultimo summit in Vietnam è andato piuttosto male, chiuso senza risultati.

“Siamo consapevoli di quel che ha fatto la Corea del Nord stanotte”, ha commentato a caldo la portavoce della Casa Bianca, Sarah Huckabee Sanders, “continueremo il monitoraggio”; mentre il Pentagono ha fatto sapere che prima di uscite pubbliche aspetterà di aver raccolto sufficiente intelligence. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha parlato immediatamente dopo la rilevazione del lancio con la sua omologa giapponese, Kang Kyung-wha, e, secondo quanto diffuso dal ministero di Tokyo, avrebbero concordato di “agire con cautela”.

Ad aumentare la delicatezza del momento, c’è adesso l’altro incontro dei giorni passati, quello con cui il Kim ha fatto visita in Russia per un bilaterale con Vladimir Putin che con il meeting ha ufficialmente portato Mosca nel dossier.

Al di là delle dichiarazioni di rito, quelle secondo cui tutti lavorano per raggiungere maggiore stabilità e armonia, l’ufficializzazione della presenza politico-diplomatica russa è piuttosto importante perché giocata di sponda con la Cina, verso cui Mosca sta slittando.

Per dare un altro taglio del contesto, val la pena di ricordare che l’Orso e il Dragone sono state inserite nell’ultimo documento strategico per la sicurezza nazionale redatto due anni fa per la Casa Bianca come “rival powers“, potenze rivali degli Stati Uniti a tutto campo (e dunque anche nel dossier nordcoreano, dove l’eventuale collaborazione è da vedere sempre nell’ottica degli interessi: la Cina è l’unico appiglio che tiene aperto a Pyongyang uno spiraglio nel buio dell’isolamento internazionale in cui la satrapia è stata infilata da Washington; la Russia gioca le sue carte, dove trova spazi si infila, e in alcuni casi ha anche aiutato i nordcoreani a svicolare qualche sanzione).

Da diversi mesi non si registravano dimostrazioni militaresche come quella di oggi, ma ultimamente Kim stesso ha assistito a due test missilistici su quella che la propaganda del regime ha definito “una nuova arma tattica da crociera”. Chiaramente a Pyongyang c’è frustrazione, e l’avvio – in forma crescente – di una nuova stagione muscolare può essere considerata da Kim una mossa per aumentare le pressioni sugli Stati Uniti e contemporaneamente ravvivare la componente più dura del regime, cresciuta con l’anti-americanismo post guerra di Corea e non troppo d’accordo con la fase negoziale in corso.

Il nervosismo di Kim è legato a obiettivi e ambizioni. Sperava di ottenere elasticità dagli Stati Uniti: dava in cambio passi verso la denuclearizzazione – e dimostrazioni di buoni intenti, come è stato finora lo stop ai test – e si aspettava simmetria da parte di Washington nel sollevamento delle sanzioni. La retorica dietro ai colloqui girava attorno a questo: stiamo lavorando per lo sviluppo e la prosperità della nazione, diceva lo storytelling del regime per raccontare i negoziati.

Ma nonostante forse Trump vedesse il dossier in termini affaristici, e dunque più incline a cedere qualcosa, ha seguito lo schema della massima pressione, rimasto per ora un caposaldo nella strategia con cui gli Stati Uniti trattano con il Nord (molto sponsorizzato da elementi come Pompeo o come il consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton).

Tecnicamente, i missili sparati oggi non violano la moratoria promessa da Kim, perché quella riguardava test su vettori intercontinentali a medio e lungo raggio, e i test atomici. Tuttavia è evidente che il clima è momentaneamente cambiato: le stesse parole con cui Kim ha imposto un “ultimatum” – la fine dell’anno – entro cui Washington dovrà decidere se andare avanti o meno con i negoziati, e quindi secondo Pyongyang cedere su qualcosa in termini economici (ossia: alleviare le sanzioni), è un aumento della dialettica (e non è detto che Kim riceva dall’esterno qualche spinta per portare la situazione sotto stress).

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