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È molto più di un forum internazionale sulla Difesa quello riunitosi a Mosca alla corte di Vladimir Putin. La Conferenza di Mosca sulla sicurezza internazionale, giunta alla sua ottava edizione, si conferma un palcoscenico d’eccezione per la diplomazia del Cremlino. L’ultima edizione aveva visto sfilare, secondo gli organizzatori, le delegazioni di ben novantacinque Paesi con più di 850 delegati. Assente anche quest’anno l’Italia assieme a gran parte dei Paesi Nato, in ossequio a una decisione dell’Alleanza atlantica risalente al 2014 anno dell’annessione russa della Crimea, quando ha deciso collegialmente di boicottare l’evento. Nell’imponente palazzo di sovietica memoria nel quartiere moscovita Chamovniki il Cremlino ha dato uno sfoggio inedito dei suoi successi diplomatici. Tanti i temi sul banco, dalle tensioni nell’Est Europa alla corsa missilistica passando per il contrasto della Nato nel Mar Baltico e le nuove rotte dell’Artico.

Notevole il parterre di ospiti accorsi all’ombra della Piazza Rossa. Nonostante l’assenza di Paesi Nato, alla conferenza moscovita hanno fatto capolino rappresentanti di governi esteri di primissimo piano, tanto dai Paesi dell’Estero Vicino quanto dal Medio Oriente e dall’Asia. Il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe che in un bilaterale con l’omologo russo Sergei Shoigu ha annunciato nuove manovre militari congiunte al largo della costa di Qingdao, poi il viceministro della Difesa saudita Khalid bin Salman e il ministro della Difesa iraniano, il generale Amir Hatami, il numero due della Difesa siriana, l’assadiano di ferro Mahmoud Shawa, e il ministro della Difesa venezuelano Vladimir Padrino Lopez alcuni dei nomi più in vista.

La conferenza, aperta da un videomessaggio inaugurale di Putin e dall’intervento del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ha tutto il sapore di un guanto di sfida agli Stati Uniti e alla resilienza del blocco atlantico. La passerella di alti funzionari di governi esteri andata in scena a Mosca lancia un messaggio inequivocabile: la Russia è tornata protagonista sullo scenario globale, e vuole colmare i vuoti lasciati dall’amministrazione Trump. Un’ambizione di cui lo zar russo non fa mistero. Lo scorso ottobre, dal palco del Forum di Valdai, aveva paragonato gli Stati Uniti a un impero decadente, ringraziando il cielo perché “il mondo unipolare è finito”. Questo auspicio ha fatto da sottofondo a tutti i panel che si sono susseguiti durante la kermesse al ministero della Difesa. Lo ha detto senza mezzi termini il segretario del Consiglio di sicurezza russa Nikolaj Patrushev: “Siamo testimoni del fatto che è tornato il vecchio colore della Guerra Fredda”.

L’apparente epilogo del caso Russiagate e i toni concilianti di Trump non devono ingannare. Russia e Stati Uniti sono ai ferri corti su più fronti, dalla corsa missilistica con cui, ha accusato il vice capo di Stato maggiore Viktor Poznikhir, l’amministrazione Trump starebbe preparando “un attacco nucleare a sorpresa”, al fronte ucraino sul quale incombe l’incognita del neo-eletto presidente Vladimir Zelensky, dall’America Latina (frequenti le stoccate alla “dottrina Monroe” americana durante la conferenza) al Mar Baltico. “Le nostre azioni sono solo una risposta alla crescente attività militare degli Stati Uniti e della Nato – ha spiegato dal palco il generale Valerij Gerasimov, capo di Stato maggiore e padre dell’omonima dottrina sulla guerra ibrida russa – In opposizione allo schieramento delle truppe dell’Alleanza vicino ai confini della Russia e all’iniziativa della Nato ‘Four Thirties’, siamo costretti a rafforzare la composizione delle truppe dei distretti militari occidentali e meridionali”.

La Russia di Putin dà sfoggio di continuo della ritrovata assertività all’estero. Di questa consapevolezza la conferenza sulla sicurezza a Mosca è stata un formidabile megafono. La politica estera, la promessa di una Grande Russia con in mano le chiavi dell’Eurasia è da sempre la cifra caratteristica della presidenza dell’ex Kgb. Ed è un diversivo utile a nascondere sotto al tappeto il malcontento popolare per un’economia tutt’altro che ruggente. Crescita anemica, prezzi del petrolio mai tornati ai livelli pre-crollo del 2015, reddito familiare in calo da cinque anni. Non proprio un bilancio da grande potenza. “Putin non è mai stato così attento all’immagine internazionale della Russia come oggi – spiega ai microfoni di Formiche.net Ivan Kurilla, professore di storia delle relazioni russo-americane all’Università europea di San Pietroburgo – il messaggio è chiaro: la Russia è tornata sul palcoscenico globale, si è riarmata ed è pronta a sfidare l’egemonia statunitense”. L’agenda della conferenza moscovita, dice Kurilla, è di per sé eloquente: “ci sono diversi panel dedicati a quelle che a Mosca sono definite con tono dispregiativo “rivoluzioni colorate”, cioè le rivoluzioni popolari come le primavere arabe che, secondo il Cremlino, sarebbero finanziate dagli Stati Uniti e di cui il governo russo ha paura”.

Non è un caso, spiega l’esperto, che il dossier mediorientale abbia avuto uno spazio privilegiato nell’organigramma del forum. L’intervento militare in Siria è la carta vincente con cui Putin ha trasformato Mosca nel centro nevralgico degli equilibri mediorentali. A tre decenni dal collasso dell’Unione Sovietica la Russia è tornata a far da padrona nella regione, colmando il vuoto strategico lasciato dagli Stati Uniti prima con l’amministrazione Obama e confermato dall’amministrazione Trump. Iran, Arabia Saudita, Israele, i tre principali e storici contendenti della supremazia regionale, da sempre sul piede di guerra, hanno trovato nel Cremlino un interlocutore affidabile. “Da una prospettiva regionale l’intervento in Siria si è certamente trasformato in una vittoria per Putin – dice il professore di San Pietroburgo – prima di intervenire la Russia era un Paese isolato, l’annessione della Crimea nel 2014 aveva ostracizzato il Paese, Putin veniva da un G20 in cui nessuno gli aveva voluto stringere la mano”. La vittoria boots on the ground sul suolo siriano ha permesso a Putin di raggiungere l’obiettivo di breve periodo, confermare al potere Bashar al Assad, ma soprattutto quello di medio-lungo periodo, accreditare la Russia come pilastro inamovibile nel risiko mediorentale.

Così si spiega perché tutti i leader regionali che indirettamente o direttamente hanno preso parte al conflitto siriano negli ultimi anni, nessuno escluso, abbiano trovato nel Palazzo Rosso un rifugio sicuro cui recarsi per rimostrare, rivendicare, chiedere consiglio e aiuto. Dall’emiro del Qatar al-Thani al presidente iraniano Hassan Rohani, dal principe saudita Mohamed Bin Salman al principe emiratino Al Nayhan, negli ultimi dodici mesi si è infittita la schiera di leader regionali che ha scelto Mosca come terminale ideale per regolare i propri interessi in Medio Oriente. Perfino un alleato storico statunitense come Benjamin Nethanyahu, che ha appena vinto una riconferma alla presidenza israeliana a suon di cartelloni con il ritratto di Donald Trump, ha dato uno sprint notevole ai rapporti bilaterali con la controparte russa. Undici le chiamate con Putin nel 2018, a fronte di sole tre con il Tycoon alla Casa Bianca.

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