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Novant’anni fa, l’11 febbraio 1929, il capo del governo italiano Benito Mussolini ed il segretario di Stato vaticano cardinale Pietro Gasparri firmavano i Trattati del Laterano abbattendo lo “storico steccato” tra la Chiesa e lo Stato che per decenni, dalla cosiddetta “breccia di Porta Pia”, non dimenticando i prodromi risorgimentali, aveva reso il Tevere più largo. La frattura, che dai tempi di Pio IX e di Vittorio Emanuele II, sembrava insanabile, “prodigiosamente” si ricompose grazie ad un lavorio instancabile ed intelligente, che conobbe battute d’arresto le quali ogni volta facevano temere il peggio, grazie a classi dirigenti avvedute ed inclini a sanare una ferita che faceva soffrire i credenti e non allietava comunque gli scettici o gli anticlericali tout court consci, almeno i più politicamente consapevoli, che la ricomposizione era la premessa per realizzare quella coesione nazionale sulla quale costruire l’avvenire.

Un tempo la data era tra le più celebrate del calendario civile italiano. Poi s’è perduta come la memoria storica di tutto il Paese ed oggi non ricorda nessuno quello straordinario evento che concretizzava un antico auspicio fondato sulla moralità dello Stato nel riconoscere la religione cattolica come uno dei fondamenti della sua stessa identità e la necessità della Chiesa ad aprirsi cui non poteva derogare chiudendosi in se stessa, ostile verso il popolo che ai suoi precetti comunque si informava.
Mussolini, al suo esordio in Parlamento, nel giugno 1921, senza tentennamenti, e mettendo in conto di essere svillaneggiato dai suoi avversari, soprattutto dagli ex-compagni socialisti, con l’accusa di aver abiurato al vecchio anticlericalismo, affermò risoluto quel che da oltre quarant’anni in Vaticano e nel Paese si voleva sentir dire: “La tradizione latina e imperiale di Roma è oggi rappresentata dal cattolicesimo. Se, come diceva Mommsen, 25 o 30 anni fa, non si resta a Roma senza un’idea universale, io penso e affermo che l’unica idea universale che oggi esiste a Roma, è quella che si irradia dal Vaticano”.

L’allora semplice deputato Mussolini coglieva l’essenza del problema che gli stava davanti. E assumendo tra le sue priorità la “questione romana” poneva le premesse per la soluzione gettando le basi di un Concordato a lungo atteso che gli avrebbe consentito da un lato di arricchire di contenuti etici e spirituali lo “Stato nuovo” che intendeva costruire sulle macerie di quello agnostico e liberale, e dall’altro di legarsi alla tradizione cattolica riconoscendo alla Chiesa il suo primato religioso. Il che non fece andare in estasi il mondo laico e neppure quella componente del fascismo intrinsecamente avversa al confessionalismo e in alcuni settori legata alla massoneria.

Il conflitto che si era aperto il 29 aprile 1848 con la celebre allocuzione di Pio IX, dalla quale si traeva la conclusione che il vagheggiato neo-guelfismo giobertiano era tramontato nella prospettiva della Chiesa e di conseguenza si prendeva atto dell’impossibile convivenza della missione nazionale italiana e di quella universale del papato, veniva superato, dopo un discreto e fattivo “avvicinamento” da ambo le parti, tanto durante il pontificato di Leone XIII che di Pio X e poi di Benedetto XV, per concretizzarsi dopo l’ascesa al Soglio di Pio XI, con quell’approccio pragmatico delle nuove classi dirigenti italiane dimostrato dopo la guerra. “Libera Chiesa in libero Stato” di Cavour, lungimirante più d’ogni altro quando tutto volgeva al peggio, agli inizi degli anni Venti non era più un motto al quale ispirarsi da parte della politica italiana, ma un decisivo e promettente programma dalle alte possibilità di accendere una visione statuale e religiosa compatibile con lo spirito del popolo, il “sentire” di cittadini frastornati fin dal tempo della “fuga” del Papa a Gaeta e poi dalla Repubblica romana, dalle leggi Siccardi, dalla dichiarazione di decadenza dei privilegi ecclesiastici, dall’affermarsi del modernismo. I pontefici rispondevano come potevano, con il Sillabo e la Rerum Novarum, soprattutto, ed i cattolici osservanti con il non expedit (il rifiuto di partecipare dalla vita politica e dunque alle elezioni), ma l’impasse restava a detrimento della convivenza civile degli italiani.

Dopo molti tentativi di avvicinamento, le “aperture” di Mussolini favorirono l’intesa decisiva. Per la quale bisognò attendere altri otto anni che furono assai proficui non soltanto dal punto di vista diplomatico e politico, ma anche sul piano della maturazione delle ragioni delle due parti che fornirono agli artefici dell’alto compromesso il materiale adatto a costruire un edificio che, pur rivisitato parzialmente negli ultimi novant’anni ha retto e regge a riprova che quando classi dirigenti accorte e consapevoli s’ingegnano al raggiungimento dello scopo tutte le difficoltà possono essere superate: la dimostrazione venne offerta, in tempi più recenti, dalla “revisione” del Trattato operata da Bettino Craxi, presidente del Consiglio, che s’impegnò, senza smontare i “Patti”, ad una messa a punto necessaria dopo la polvere che il tempo aveva su di essi depositata. Polvere che non riscontrò Palmiro Togliatti quando, alla Costituente, egli stesso conscio dell’importanza della questione, favorì l’inserimento dei risultati concordatari nella Costituzione repubblicana all’articolo 7.

Novant’anni fa, dunque, venne scritta (e sottoscritta) una pagina di storia che è caduta nel dimenticatoio, purtroppo, ma che costituisce, comunque la si voglia leggere, una delle tessere del mosaico identitario italiano. Dobbiamo a Giancarlo Mazzuca, giornalista autorevole con l’occhio sempre rivolto alla storia cui ha dedicato innumerevoli saggi di grande spessore, la più recente ricostruzione di quegli eventi: “Quei Patti benedetti” (Mondadori, pp. 191, € 19) è un libro documentatissimo, di godibile lettura che aiuta a percorrere agevolmente i meandri della complessa e lunghissima vicenda, dalla quale vengono fuori le tappe salienti dal tempo della disperazione a quello della speranza e poi del successo finale.
quei patti benedettiMazzuca non dimentica proprio nulla. Descrivendo perfino il “clima” politico e culturale del tempo, comprese elezioni papali e successioni reali, dibattiti parlamentari e polemiche giornalistiche, encicliche ed avvicendamenti nelle gerarchie ecclesiastiche, moti di ripulsione ed entusiastiche accettazioni di quanto si muoveva nel senso di “restringere” in Tevere. Il suo è un lavoro di ricucitura esente da pregiudicato, e perciò rende la realtà per quella che fu: l’abilità dello scrittore si dimostra così pari alla competenza dello storico nel raccontare il Patto Gentiloni e l’assassinio di don Minzoni (oltre che un crimine perpetrato da fascisti rozzi ed ignoranti, fu un peccato di imbecillità inescusabile), la stima e la contemporanea avversione di Pio XI verso il suo successore Pacelli, segretario di Stato dopo Gasparri, le convulsioni all’interno del fascismo e quelle non meno “impegnative” nella Chiesa tutt’altro che monolitica.
Un racconto, insomma, di vita e storia italiana – con le sue laiche e religiose connotazioni – che fanno del libro di Mazzuca un vero e proprio sommario di storia post-risorgimentale accessibile al punto da spiegare – proprio così – il Concordato nella maniera più semplice ed accessibile.

L’intesa finale, come sottolinea Mazzuca, era suddivisa in tre parti. La prima, il Trattato vero e proprio, stabiliva che il cattolicesimo era la religione di Stato; che la Città del Vaticano veniva a sua volta riconosciuta come uno Stato sovrano delimitato da una cinta di mura (per 44 ettari) ed aventi alcune appendici esterne. La seconda parte, il Concordato, definiva i rapporti tra l’Italia e la Santa Sede; venivano indiate le festività cattoliche riconosciute civilmente, si riconosceva la validità civile dei matrimoni religiosi, mentre l’insegnamento della dottrina cristiana veniva riconosciuta in tutte le scuole del Regno. Lo Stato, insomma, in aderenza al discorso di Mussolini citato in apertura, garantiva alla Chiesa autonomia completa in campo religioso e le offrirà la tutela giuridica. Perfino le scuole cattoliche venivano parificate a quelle statali con la corrispondenza della validità dei titoli. La terza parte, la Convenzione, sanciva gli accordi finanziari consistenti in particolare con gli esborsi economici da parte dell’Italia a risarcimento dell’accaduto, effetti delle Guarentigie inclusi.

Pio XI commentò: “Dobbiamo dire che siamo stati anche dall’altra parte nobilmente assecondati. E forse ci voleva anche un uomo che la provvidenza ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale, per gli uomini della quale tutte le leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanto feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi, quanto più brutti e deformi”.

Con l’assistenza dello Spirito Santo, come si si disse all’epoca, ma più terrenamente con l’ausilio di Francesco Pacelli, fratello del futuro pontefice, da parte vaticana e di Alfredo Rocco, ministro Guardasigilli, da parte italiana, il cardinale Gasparri e il capo del governo Mussolini, condussero in porto una impresa non facile che segnò i destini dell’Italia e della Chiesa ed aprì le porte dal altri concordati, a cominciare da quello con gli ebrei stipulato qualche anni dopo con reciproca soddisfazione.

Il 1938 era ancora lontano; i venti di guerra non spiravano minacciosi; il Paese aveva un altro orizzonte a cui guardare davanti a sé, perfino oltre il Mediterraneo, quando Mussolini dal mondo arabo fu definito e riconosciuto come “spada dell’Islam”. L’Italia cattolica poteva essere amica degli ebrei e dei musulmani. Un’illusione che durò poco. Malauguratamente.

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