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Il regolamento dei conti ha preso il sopravvento sulla cura dei conti. Anche perché il primo può essere una recita, mentre la seconda affonderebbe molte finzioni. Il regolamento dei conti ha a che vedere con l’apparire, i conti con l’essere.

Da tempo i mezzi di comunicazione hanno fatto partire il giochino: chi conta di più, chi prende il sopravvento, all’interno del governo? Solitamente prevale la Lega, segnatamente Salvini. Qualche volta la somma dello spendere favorisce i 5 Stelle, nominalmente Di Maio. Da qui il regolamento, a favore di telecamera. Ma lo scontro è più apparente che reale, dato che la sostanza è inequivocabile: se decidi di condonare è segno che vuoi perdonare chi violò la legge, in cambio di qualche soldo. Nel momento in cui non solo condoni quel che è acclaratamente dovuto e non pagato, ma anche quel che non è stato denunciato (a tacere di quel che è stato abusivamente costruito), è evidente che devi anche disinnescare la punizione per il comportamento illecito a monte delle somme irregolari. Non serve pensare a una manina, basta e avanza una testina. Per capirlo. Ma la scena serve a motivare, o evitare di demotivare, le tifoserie. Su roba simile il governo casca solo se i giocolieri perdono il controllo dei birilli che essi stessi lanciarono in aria, scagliandoseli sulla capoccia. Facile che parta presto il numero successivo, distraendo gli astanti.

I conti veri stanno da un’altra parte. Il problema non è la lettera della Commissione europea, tanto scontata da essere stata anticipata dallo stesso ministro dell’economia. Su quel fronte pesa non solo lo sforamento del deficit, ma la sfacciataggine con cui viene praticato. Conta non solo il crescere della spesa pubblica, ma il suo dirigersi in aree improduttive. Storia antica, purtroppo. Il problema, però, non è quell’interlocutore europeo, ma la previsione italiana: nel 2019 faremo un deficit maggiore di quello alto provocatoriamente proclamato, ciò in ragione del fatto che, sul fronte del pil, la crescita prevista è immaginifica. Dice il governo: la risposta cambierà quando illustreremo le riforme strutturali che faremo. Ecco, appunto, quali sono? Perché quel che si vede è solo più soldi a chi non lavora e più possibilità di andare in pensione. Due misure che, da sole, restituiscono il senso dell’ennesimo declassamento. E, del resto, che altro poteva accadere se si indebita o si prendono soldi a chi lavora per consegnarli a chi non lavora o smette di lavorare. La sola cosa che cresce, in questo modo, è la demolizione della nostra sovranità, sebbene accompagnata da un sovranismo sbruffone e parolaio, primo di quale che sia significato concreto.

Ma di ciò poco ci si cura. Si attende che arrivino i giudizi delle agenzie di rating: se saranno negativi si griderà al complotto plutogiudaicomassonico; se saranno clementi si dirà che tocca alla Bce fare da scudo all’Italia. Questo sulla bocca di quanti hanno fin qui insultato la Bce e le istituzioni europee per essere riuscite a fare da scudo all’Italia. Che, appunto, in questa surreale posizione si trova isolata. Basti ricordare quanto detto dall’austriaco Kurz (non abbiamo nessuna comprensione per l’Italia) e dall’olandese Rutte (si rispettino gli obblighi comuni del patto di stabilità), mentre gli altri amici (del governo) bavaresi perdono le elezioni e gli ungheresi diminuiscono il debito avendolo al 70% (il nostro è al 131%). Certo, rimangono Le Pen e Bannon, per non mandare deserta l’adunanza.

Qui, però, per ora, ci si occupa della sceneggiata.

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