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Alla fine l’atteso voto sull’accordo che regola il divorzio tra Regno unito e Unione Europea, previsto per questa mattina a Westminster, è stato rinviato. Ieri pomeriggio la premier Theresa May ha dichiarato alla Camera dei Comuni che l’accordo così com’è non avrebbe ottenuto la maggioranza necessaria per essere approvato e ha dichiarato che nelle prossime ore richiederà con urgenza un nuovo round di negoziati alla Ue per cercare di modificare quanto previsto in merito al meccanismo del backstop al confine irlandese, che rappresenta il punto più controverso e la principale causa della mancata fiducia nei confronti dell’accordo. In realtà la possibilità di un rinvio del voto, al momento sine die, circolava a Westminster già da sabato a conclusione di una settimana di polemiche che hanno preso le mosse da due aspetti legali.

Il primo legato al parere legale dell’attorney general britannico Geoffrey Cox, secondo cui alcune delle previsioni contenute nel Withdrawal Agreement, proprio relative al confine irlandese, costringerebbero di fatto il Regno Unito nell’unione doganale con la Ue a tempo indeterminato, fino a quando non venisse definito un accordo per regolare le future relazioni nel dopo Brexit.

Altra fonte di polemiche è stato il verdetto pronunciato dalla Corte di Giustizia Europea secondo cui il Regno Unito potrebbe revocare la procedura per la separazione avviata ai sensi dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione Europea, e quindi annullare unilateralmente Brexit. Questa sentenza ha da subito ridato vigore a quanti a Londra, in testa l’ex premier Tony Blair, richiedono a gran voce un nuovo referendum. A questo punto lo scenario è molto fluido e non è semplice fare previsioni.

Il primo scenario possibile è dato dalla riuscita della missione europea di Theresa May, che lei stessa ha lasciato venisse paragonata al viaggio in Europa di Margaret Thatcher, con l’ottenimento delle modifiche richieste sul backstop, ad esempio prevedendo un meccanismo di uscita per il Regno Unito se entro un tempo prefissato non si raggiungesse un accordo sulle future relazioni. In questo caso ci sarebbe tempo fino al 21 gennaio per ripresentare il testo a Westminster e raggiungere la maggioranza necessaria di almeno 320 deputati.

Considerando le dichiarazioni della premier che ha più volte detto di voler andare fino in fondo nell’interesse dei cittadini britannici, cercando quindi di conseguire le modifiche che gli permetterebbero di far approvare l’accordo, sembrerebbe di poter escludere l’ipotesi di dimissioni. Ipotesi alternativa sarebbe una mozione di sfiducia che dovrebbe però mettere insieme forze diverse, dai Remainer presenti in maniera trasversale tra le forze politiche, alla parte di Tories Hard Brexiteers, a quella larga parte del Labour che guarda a questa situazione come ad un’occasione per tornare ad elezioni generali. Questa soluzione potrebbe verosimilmente portare il Regno Unito a nuove elezioni.

Un’ulteriore opzione potrebbe essere data dal ricorso ad un nuovo referendum popolare. Anche questa soluzione, per essere realizzata, dovrebbe vedere la convergenza di forze diverse, che si presenterebbero poi alle urne referendarie con obiettivi opposti. I remainers per determinare una marcia indietro da Brexit, i fautori della hard Brexit per richiedere agli elettori di rafforzare il loro pronunciamento del 2016.

Infine, in queste ore si è parlato anche di un possibile piano B, lasciato paventare dal ministro Amber Rudd, che consisterebbe nell’applicazione del cosiddetto modello Norvegia Plus a termine, ovvero la permanenza del Regno Unito nello Spazio economico europeo, che andrebbe necessariamente legato in questo caso anche alla permanenza nell’unione doganale. Con questa soluzione il Regno Unito dovrebbe accettare oltre al mantenimento della libera circolazione delle merci e dei capitali anche quella delle persone. E dovrebbe continuare a contribuire in parte al bilancio dell’Unione. Per questi motivi Amber Rudd lo ha proposto come modello a termine da mantenere in vigore solo fino a quando non fosse raggiunto un nuovo accordo per il post Brexit. Resta inoltre sul tavolo la possibilità di una uscita senza accordo, laddove la situazione si complicasse e non rendesse possibile trovare una soluzione utile entro la data termine del marzo 2019.

Al momento dall’Unione Europea, sia dal presidente della Commissione Jean-Claude Junker sia dal presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk, non sono arrivati segnali di apertura per una modifica del Withdrawal Agreement. Bisogna verificare quanto questa posizione di chiusura resterà tale.

L’opportunità di un accordo equo e di una ritrovata chiarezza su quello che sarà, in grado di dare sin da subito stabilità ai rapporti tra le parti, è tutta scritta nei numeri. Oltre 3 milioni di cittadini europei vivono nel Regno Unito, e nel solo 2017 sono stati registrati oltre 650 miliardi di euro di scambi commerciali tra Unione Europea e Regno Unito, senza dimenticare i mercati finanziari e gli oltre 850 miliardi di euro al giorno di strumenti finanziari denominati in euro scambiati principalmente nella City. Ancora una volta le prossime ore saranno determinanti.

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