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Parlando dal palco del festival del magazine di geopolitica Limes, il premier Giuseppe Conte ha detto tre giorni fa che l’Italia vede la Belt and Raod Iniziative (Bri, anche detta la Nuova Via della Seta, o ancora Obor, One Belt One Road) come “un importante progetto di connettività infrastrutturale” a cui partecipare, e ha spiegato che il governo di Roma sta “studiando e analizzando” le implicazioni collegate all’appoggiare formalmente l’iniziativa.

“Con tutte le cautele necessarie, ritengo possa essere una opportunità per il nostro Paese”, ha detto Conte spiegando che il prossimo incontro in Italia con il presidente cinese, Xi Jinping, “sarà l’occasione per sottoscrivere un accordo quadro”, un Memorandum of Understanding su cui “stiamo lavorando”. Questo “non significa che saremo vincolati il giorno dopo, ma potremo entrare e dialogare” nell’ambito di questo progetto.

Poi il premier ha annunciato di aver dato la propria disponibilità a partecipare al prossimo summit globale sulla Bri organizzato a Pechino ad aprile. Nei giorni scorsi, il sottosegretario al Mise Michele Geraci aveva anticipato il premier e detto ufficialmente che c’erano buone probabilità che l’Italia firmasse un memorandum d’intesa con la Cina riguardo alla Bri durante la visita del presidente Xi (prevista per le date attorno al 20 marzo: 21, 22, 23). Geraci ne aveva parlato in un’intervista sul Financial Times, e poi aveva approfondito col Sole 24 Ore, a cui diceva di essere “un po’ sorpreso” del clamore che la sua dichiarazione al giornale inglese s’era portata dietro.

E però quel clamore è piuttosto logico visto ciò che la firma italiana rappresenterebbe. Per la Cina sarebbe un gran successo l’ingresso formale di Roma, il primo paese del G7, nel gruppo di paesi che sostengono quello che viene individuato come un grande piano geostrategico a lunga gittata (e che Pechino cerca di vendere come un armonioso e innocuo progetto per la creazione di un network infrastrutturale potentissimo con cui collegare Cina, Eurasia e Occidente europeo). Per gli Stati Uniti meno, visto che vedono quel piano come un elemento che si inserisce nel quadro di competizione globale con cui i cinesi vogliono rubare il trono di prima superpotenza a Washington.

Gli americani non sono affatto soddisfatti della posizione presa dal governo italiano sulla Cina. Preferirebbero, secondo quanto spiegano in forma discreta alcune fonti, che Roma continuasse a “lavorare con Pechino in forma più contingentata, dossier per dossier, senza necessariamente firmare ampi progetti di intesa che avrebbero più che altro un valore politico e simbolico” (il MoU viene in effetti descritto come “una scatola vuota”, intenti ma non intese, però tanta immagine politica). Il concetto non è nuovo: Washington ha ingaggiato con la Cina una confronto globale, dal tema Taiwan al Mar Cinese così come sul 5G o sul commercio, e gli americani non vogliono rischiare di perdere pezzi importanti come l’Italia.

“(La firma sul MuO, ndr) è anche un’occasione proficua per introdurre i nostri standard in termini di stabilità economica, finanziaria e ambientale e di sostenibilità […] e anche i nostri parametri giuridici e legali del progetto […] che vorremmo fosse ampio e trasparente quanto più possibile”, ha però detto Conte nel suo intervento al festival di Limes, che si teneva a Genova. La città stessa ha, in modo casuale, un certo significato sull’argomento: qualche giorno fa, il presidente dell’autorità portuale locale, Paolo Emilio Signorini, ha annunciato che nel quadro di intesa che Roma firmerà con Pechino si creerà la “cornice strategica” perché il porto genovese – il principale in Italia – possa firmare un accordo di cooperazione con la China Communications Construction Company, azienda di ingegneria infrastrutturale controllata dal governo cinese.

L’interesse per i porti italiani da parte della Cina non è nuovo (oltre Genova sul piatto ci sono Venezia, Trieste, Ravenna, e pure Palermo, dove Geraci e Conte vorrebbero portare Xi secondo le informazioni pubblicate dal Foglio), e rientra in colloqui che durano da anni e sono passati per i precedenti governi – tant’è, per esempio, che l’ex premier Paolo Gentiloni fu uno dei pochi leader occidentali a presenziare alla prima riunione sulla Bri, anticipando il possibile viaggio di Conte (ma a quei tempi i rapporti con la Cina seguivano più quell’inter circoscritto a dossier specifici auspicato dagli Usa: investimenti anche importanti, che però non scomodavano troppo Washington).

L’occhio cinese su infrastrutture strategiche è adesso l’elemento di preoccupazione per gli americani, che vedono queste penetrazioni col rischio del risvolto politico. Un esempio: la scorsa settimana l’Italia ha votato contro (unica dei ventotto, insieme alla Gran Bretagna) al sistema di screening sugli investimenti esteri proposti dall’Unione Europea che Roma stessa aveva proposto di istituire nel febbraio del 2017 (insieme a Germania e Francia) proprio ponendo l’attenzione sull’ingresso di fondi cinesi in Europa. Questo genere di shift – formalizzato a novembre dello scorso anno dal sottosegretario Geraci in sede Ue – non sono graditi alla Washington ingaggiata a livello globale contro la Cina.

Conte è perfettamente conscio della situazione, tant’è che da Genova ha precisato: “Naturalmente anche con gli Usa il dialogo è costante su un dossier così strategico. Ci confrontiamo continuamente. Il fatto di essere collocati comodamente nella Alleanza Atlantica non ci impedisce però di fare scelte economiche e commerciali con la Cina per avere maggiori opportunità”.

La Xinhua, l’agenzia stampa statale cinese che sabato riportava in home page la notizia della possibile partecipazione di Conte al summit di Pechino (proprio per quelle ragioni di immagini di cui si diceva, ndr), ricorda che “un totale di 152 paesi e organizzazioni internazionali hanno firmato documenti di cooperazione con la Cina sull’iniziativa [Bri] negli ultimi sei anni, come dimostrano le cifre ufficiali”, però non scrive che l’Italia sarebbe il più importante tra i paesi sottoscrittori (per dire, finora Pechino in Europa può contare soltanto sul sostegno di Polonia, Ungheria, Portogallo e Grecia).

Xinhua aggiunge anche: “Da quando è stato insediato nel giugno 2018, il governo populista di destra [italiano] ha compiuto tre visite di alto livello in Cina, inviando il ministro delle finanze Giovanni Tria, [il sottosegretario] Geraci e il vicepremier Luigi Di Maio, che funge anche da ministro per lo sviluppo economico”. E il ministro del Mef sta per preparare un’altra visita in Cina.

Nei giorni scorsi invece il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, uno dei leader della Lega nella squadra governativa, era a Washington. Ospite del dipartimento di Stato ha ricevuto un briefing sul valore del rispetto dell’alleanza con gli americani (su cui tre giorni fa s’è espressa anche la presidenza della Repubblica) trattando tutti i principali dossier, dal 5G alle infrastrutture, in cui la presenza cinese è oggetto della preoccupazione degli Stati Uniti.

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