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L’esito del referendum indetto dalla Cgil e sposato e condiviso da tutti i partiti del “campo largo” è stato quanto mai chiaro. Oserei dire inequivocabile. Si tratta di una plateale sconfitta elettorale e politica e, di conseguenza, di uno schieramento politico. E questo perché la consultazione referendaria si è trasformata, per volontà stessa di tutti i capi dei partiti della sinistra, in un vero e proprio referendum contro Giorgia Meloni e il suo governo. Operazione ovviamente legittima ma del tutta esterna ed estranea rispetto al merito e ai contenuti dei quesiti referendari.

Per queste ragioni, semplici ma oggettive in quanto incontestabili, si tratta di una sconfitta politica del “campo largo” e quindi del progetto politico di quello schieramento. Anche perché, come ormai sapevamo tutti, il referendum voluto dalla Cgil aveva due grandi obiettivi politici. Il primo era quello, appunto, di dare una spallata al governo Meloni e il secondo, altrettanto chiaro ed evidente, era una sorta di derby all’interno della stessa coalizione di sinistra e progressista. Non a caso Arturo Parisi, storico consigliere di Romano Prodi e fine intellettuale dell’area di centro sinistra, aveva definito il referendum dell’8/9 giugno come “il vero congresso del Pd”. Mente altri, allargando un po’ di più l’orizzonte, lo aveva definito come le “vere primarie del campo largo” per decidere chi doveva guidare la coalizione della sinistra alle prossime elezioni politiche in alternativa al centro destra. In entrambi i casi, comunque sia, si tratta di una sonante sconfitta politica della sinistra italiana nelle sue diverse e multiformi espressioni. Cioè della sinistra radicale e massimalista di Schlein, della sinistra populista e demagogica dei 5 Stelle e della sinistra estremista ed ideologica del trio Fratoianni/Bonelli/Salis. Coordinati dal segretario generale della Cgil Landini.

Ma, al di là di queste considerazioni, c’è un forte dato politico che non può essere aggirato o rimosso. E il dato vero è che una coalizione politica nel nostro Paese quando radicalizza le posizioni è destinato ad uscirne soccombente. Perché l’estremismo classista, la polarizzazione ideologica e la radicalizzazione politica non sono mai degli ingredienti che qualificano una cultura di governo. Soprattutto per una coalizione che ha l’ambizione di governare il paese anche attraverso una ricetta riformista.

Ecco perché l’eccessiva politicizzazione del recente referendum da un lato accanto al ricorso al radicalismo ideologico come arma principale e decisiva, dall’altro, per costruire una coalizione, rischia di creare le condizioni di una miscela esplosiva che espone la suddetta coalizione a giocare un ruolo politico minoritario perché, appunto, troppo settario e fazioso. Ed è proprio su questo versante che emerge in tutta la sua nettezza la radicale diversità tra il vecchio ed antico centro sinistra – quello dei Marini, Rutelli, Veltroni e via discorrendo per intenderci – rispetto all’attuale coalizione di sinistra e progressista per come si è presentata di fronte ai cittadini italiani con questi referendum.

Ed è per questi motivi, semplici ma essenziali, che si arriva alla facile conclusione che il radicalismo, di norma, nel nostro Paese non paga mai. Riempie indubbiamente le piazze, acuisce i rapporti politici, criminalizza politicamente l’avversario/nemico ma nel momento in cui si presenta di fronte ai cittadini per il concreto governo del Paese, emerge la cruda realtà. Che è quella, del resto, emersa dal responso concreto dei seggi elettorali.

Referendum, una lezione per la sinistra: il radicalismo non paga mai. La riflessione di Merlo

Il radicalismo, di norma, non paga mai. Riempie indubbiamente le piazze, acuisce i rapporti politici, criminalizza politicamente l’avversario/nemico ma nel momento in cui si presenta di fronte ai cittadini per il concreto governo del Paese, emerge la cruda realtà. Che è quella, del resto, emersa dal responso concreto dei seggi elettorali. La riflessione di Giorgio Merlo

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