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La Cina ha deciso di spingere una nuova offensiva propagandistica sui campi di rieducazione dello Xinjiang, regione che si trova nell’Asia centrale, dove il Comitato centrale del Partito Comunista cinese ha lanciato una campagna dissuasiva contro il gruppo etnico locale degli uighuri – popolazione di origini turcofona e di religione islamica che in passato ha avuto tendenze indipendentiste abbinate a derive radicali islamiste prese da alcuni gruppi locali.

L’agenzia stampa Xinhua, che ha anche una diffusione globale in inglese, ha intervistato il governatore dello Xinjiang, Shohrat Zakir, che ha parlato dei campi definendoli “umani”, ossia andando contro la critica mossa da organizzazioni umanitarie internazionali che nell’ultimo anno hanno accusato il governo cinese di spingere una campagna “inumana” basata su privazione dei diritti, segregazione razziale, discriminazione e cultura del sospetto – per quanto noto, infatti, le operazioni di polizia sono condotte attraverso un sofisticato sistema di sorveglianza e controllo, che si avvale anche di metodi di analisi predittiva (ossia, se incrociando determinati parametri l’intelligenza artificiale della polizia cinese nello Xinjiang ottiene certi risultati, rischi di essere incarcerato e rieducato anche solo perché potresti essere un potenziale terrorista).

A settembre, il New York Times aveva avuto informazioni da funzionari statunitensi secondo cui l’amministrazione Trump starebbe pensando alla possibilità di alzare sanzioni economiche contro Pechino per la violazione dei diritti sui cittadini musulmani uighuri. Ed è questa la dimensione internazionale dell’offensiva cinese avviata dal governatore Zakir.

Per Zakir, si tratta di una campagna del tutto legittima, uno “scudo contro il terrorismo” la chiama, aggiungendo che “nelle strutture” vengono offerti corsi per uighuri e altri musulmani, fatti in lingua cinese, in cui si insegna loro a essere cittadini rispettosi della legge. In più, spiega il governatore, quelle persone ricevono formazione lavorativa per settori come tessile o e-commerce, ad altri viene insegnato come diventare parrucchieri o truccatrici. Agli “studenti”, così li chiama, sono stati offerti pasti gratuiti, dormitori con aria condizionata, proiezioni di film e accesso a sale computer.

Attraverso la formazione professionale, “la maggior parte dei tirocinanti è stata in grado di riflettere sui propri errori e vedere chiaramente l’essenza e il danno del terrorismo e dell’estremismo religioso”. Hanno notevolmente migliorato la loro coscienza nazionale, la consapevolezza civile e dello stato di diritto e il senso di comunità della nazione cinese, spiega Zakir (anche lui uighuro): sono anche stati in grado di “distinguere il bene dal male” e resistere alle infiltrazioni del pensiero estremista, sono diventati più proattivi nello scrollarsi di dosso la povertà e stanno migliorando.

A inizio novembre, ci sarà una riunione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite in cui i governi stranieri avranno la possibilità di interrogare i funzionari di Pechino sul programma di detenzione e altre misure di sicurezza invasive che interessano le minoranze musulmane. L’incontro parte con presupposti non buoni per la Cina: alle denunce di varie organizzazioni (come Amnesty e Human Right Watch) si aggiungano le minacce americane. Nikki Haley, ancora fino a fine anno ambasciatrice statunitense all’Onu, è stata l’ultima figura di alto livello in ordine di tempo ad esprimere attacchi netti: ieri, durante la Chiefs of Defense Conference Dinner a Washington, ha definito il programma nello Xinjiang orwelliano, “il più grosso internamento di civili al mondo […] e forse il più grosso da dopo la Seconda guerra mondiale”.

L’intervista diffusa dalla Xinhua con cui la Cina ha rotto il silenzio sulle strutture serve a preparare il terreno per l’Onu e potrebbe essere l’inizio di una campagna media più intensa nei prossimi giorni. Nell’ambito della manovra mediatica con cui comunicare l’armonia che il governo cinese sta costruendo nello Xinjiang, il 16 ottobre è andato in onda un documentario su questi centri trasmesso dalla Ccctv.

Per i cinesi quella regione è importante perché è fonte di disequilibri interni – diversi uighuri sono partiti verso la Siria e l’Iraq rispondendo alla chiamata califfale per il jihad, e potrebbero rientrare come terroristi di ritorno. Ma non solo: lo Xinjiang si trova su una posizione geografica centrale per il progetto Obor, la Nuova Via della Seta, il piano geopolitico e commerciale con cui il presidente Xi Jinping intende connettere l’Eurasia alla Cina.

 

xi jinping, trump dazi Xinjiang

La Cina prepara l'offensiva mediatica sullo Xinjiang

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