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Tra spread, turbolenze sui mercati e manovra in via di definizione da tre settimane il dibattito pubblico ha spento i riflettori su uno dei temi bollenti dell’estate gialloverde: le nazionalizzazioni. Il governo Conte si è ritrovato sul tavolo di Palazzo Chigi dossier spinosi che hanno messo l’esecutivo di fronte a un bivio. Alcuni, come la cessione dell’Ilva e di Alitalia, lasciati in eredità dai governi precedenti. Altri imprevedibili, come il tragico crollo del Ponte Morandi di Genova. Per ognuno dei casi citati in questi mesi di governo è stata avanzata la possibilità di un intervento dello Stato. La diatriba sull’opportunità o meno di revocare la concessione ad Autostrade per aprire le porte a una nazionalizzazione ha avuto un’eco internazionale, e fra boutade e smentite è rimasta congelata alle dichiarazioni del premier Giuseppe Conte, che al Forum Ambrosetti di Cernobbio ha trovato un’efficace escamotage per uscire dallo strettoio: “non siamo né per le nazionalizzazioni né per le privatizzazioni, siamo per una gestione efficiente delle risorse pubbliche”. Un espediente utile per riappacificare gli animi con la platea di industriali riunitasi sulle rive del lago di Como, ma non sufficiente per scacciare una volta per tutte l’ombra della febbre delle nazionalizzazioni che tanto nella stampa italiana quanto nei media internazionali (i cinesi, paradossalmente, sono molto sensibili al tema) è stata accostata al “governo del cambiamento”.

Per costringere l’esecutivo a uscire dal limbo in cui si trova e riportare al centro dell’attenzione il dibattito sulle partecipazioni pubbliche la Fondazione Einaudi ha convocato a Roma l’economista Carlo Cottarelli, il sindacalista Marco Bentivogli e il magistrato Carlo Nordio per il convegno “Nazionalizzazioni vs Mercato”. Nel titolo c’è già una chiara presa di posizione, e non potrebbe essere altrimenti per una fondazione che custodisce l’eredità politica del padre del liberalismo italiano. Intervistati dal vicedirettore del Tg5 Giuseppe De Filippi, gli ospiti hanno proposto una terza via partendo ognuno da una prospettiva diversa: economica, occupazionale, giuridica. Impossibile prescindere dall’attualità politica, a partire dal caso Autostrade. “È indubbio che ci siano stati problemi di trasparenza e concorrenza nell’assegnazione della concessione, i contratti ppp sono molto complessi ed è difficile renderli fruibili e disponibili online” ha riconosciuto Cottarelli, direttore dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano. Nazionalizzare però non aumenta la trasparenza, anzi: “la concessione è uno strumento buono, ma se nazionalizziamo affidiamo nelle mani le fasi della scelta del concessionario, della gestione degli impianti e del controllo, impedendo un confronto fra pubblico e privato”.

La regola aurea per scegliere se nazionalizzare o meno un’azienda, ha aggiunto l’economista, è la seguente: “Un’impresa deve essere pubblica in presenza di un fallimento di mercato”. Fare profitto e non fare perdite sono entrambi requisiti utili, ma non necessari per passare dalle mani del privato a quelle dello Stato: “Una volta che nasce una società pubblica, qualora dovesse andare in perdita, sarebbe molto più difficile chiuderla”. Non è mancata una stoccata ai Cinque Stelle, che dai banchi dell’opposizione tuonavano contro le partecipate locali: “Quelli che adesso parlano di nazionalizzazione fino a qualche anno fa inveivano contro i poltronifici delle partecipate, serve un approccio laico e pragmatico”. Carlo Nordio, già procuratore aggiunto della Repubblica di Venezia, non ha risparmiato fendenti sull’escalation di minacce partite dal governo contro Autostrade a pochi minuti dalla tragedia di Genova. “Hanno detto la politica non può aspettare i tempi della legge, ma allora come fai ad accertare le responsabilità? Toninelli ha subito incolpato la società concessionaria, poco dopo l’ex collega Di Pietro, inciampando un po’ nei congiuntivi, gli ha ricordato che anche il ministero delle Infrastrutture doveva controllare il controllore, e infatti ora ci sono delle persone indagate al Mit”. Si illude, chiosa Nordio, chi continua a promettere “faremo il ponte in otto mesi”: “Ci saranno valanghe di ricorsi, il Tar darà la sospensiva e bloccherà l’inizio dei lavori, più che mesi ci vorranno decenni”.

Un approccio laico al tema è quello di Marco Bentivogli, segretario generale Fim Cisl, protagonista assoluto della lunga e travagliata cessione dell’Ilva agli indiani di Arcelor Mittal. Chi ha sempre difeso i lavoratori non può essere un fan delle privatizzazioni né della longa manus dello Stato, visto che entrambe le soluzioni hanno mostrato di riuscire a fare danni. L’Italia è stata colta impreparata dall’ondata di privatizzazioni e cessioni selvagge innescata dal Trattato di Maastricht e sancita in un week end di giugno del 1992 a bordo dello yacht Britannia. “La debolezza della strategia delle privatizzazioni degli anni ’90 non fu tanto nel racconto, quanto nell’esecuzione. Non c’è dubbio che la gestione dello Stato fosse disastrosa, oggi commentatori ed economisti si ostinano a raccontarci il mito della siderurgia pubblica, che invece era fatta di inquinamento, corruzione e crisi industriale” ha spiegato Bentivogli. Il miraggio della buona gestione pubblica è tutto nell’amministrazione straordinaria di Ilva: “È stato un disastro, i commissari non avevano competenze adeguate, l’impianto era più insicuro, gli incidenti sono aumentati”. Ma l’apertura al mercato degli anni ‘90 è stata troppo frettolosa e poco previdente: “Penso al caso delle acciaierie di Piombino, o alla chiusura repentina dello stabilimento dell’Alcoa, che ci venne notificata con una mail; non bisognava solo aprire al mercato, ma ragionare in termini di governance”.

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