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Il poeta premio Nobel Gerhart Hauptmann consigliava: «Una volta che sei diventato maestro in una cosa, diventa subito allievo in un’altra». Una raccomandazione che oggi suona quasi profetica. Almeno a leggere il Future of Jobs Report 2025 appena pubblicato dal World Economic Forum, che disegna per gli esseri umani un futuro di formazione perenne: su cento lavoratori nel mondo entro il 2030 almeno 59 richiederanno aggiornamento o riqualificazione.

La velocità delle trasformazioni tecnologiche è tale che nei prossimi anni ci costringerà a un continuo rimescolamento di profili e mansioni. L’indagine, che si basa sulle informazioni provenienti da oltre mille aziende con 14 milioni di lavoratori attive in 22 settori produttivi e in 55 Paesi, evidenzia infatti come progressi tecnologici, frammentazione geoeconomica, incertezza, crisi demografiche e transizione ambientale siano i fattori che più rimodelleranno il lavoro nel mondo. Un’opportunità, secondo il Wef, e non una condanna, a patto di accettare l’aggiornamento come dimensione esistenziale. Perché non è vero che il lavoro calerà, sostituito dalle macchine: i cambiamenti strutturali in atto porteranno alla creazione di 170 milioni di posti che ancora non esistono, pari al 14% dell’occupazione totale odierna. Calcolando un equivalente dell’8% (92 milioni) delle posizioni attuali che subirà uno spostamento di mansioni, la crescita netta dell’occupazione totale sarà del 7% rispetto a oggi, ovvero 78 milioni di posti di lavoro.

Il game changer è soltanto uno: le competenze. Circa il 40% di quelle richieste sul lavoro è destinato a cambiare e la maggior parte dei datori cita questo aspetto come l’ostacolo principale da affrontare. L’Italia lo sa già: il mismatch tra la domanda e l’offerta di lavoro, misurata periodicamente dal bollettino del sistema informativo Excelsior realizzato da Unioncamere e ministero del Lavoro, continua a riguardare un’assunzione su due. Il problema non è trovare lavoratori; è trovare quelli con le giuste competenze.

Il rapporto aggiunge un dettaglio: è chiaro che aumenterà la domanda di skills tecnologiche, in materia di big data, cybersicurezza e intelligenza artificiale, ma non saranno le sole. Quelle “soft” – capacità di risolvere i problemi, pensiero creativo, flessibilità e agilità – diventeranno fondamentali. Quanto più cresce la complessità della società, tanto più preziose si fanno le doti indispensabili per evitare la paralisi da spaesamento.

Il World Economic Forum suggerisce ai governi di mettere al centro dell’agenda il capitale umano, con l’obiettivo di costruire una «forza lavoro globale equa e resiliente». L’esortazione appare strategica per un Paese come l’Italia, in cui l’inverno demografico si combina con l’invecchiamento della popolazione, causando una pericolosa compressione delle energie giovanili, che rischiano di restare tagliate fuori dal mercato del lavoro nella fase della vita in cui potrebbero essere più utili. Nel discorso di fine anno il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha affermato con nettezza: «I giovani sono la grande risorsa del nostro Paese. Abbiamo il dovere di ascoltare il loro disagio, di dare risposte concrete alle loro esigenze, alle loro aspirazioni».

Guido Carli lo sapeva. Era consapevole di quanto l’investimento sulle nuove generazioni fosse un ingrediente fondamentale della ricetta per la crescita. Si adoperò per una formazione moderna ed efficace sin dai suoi anni all’Iri, per poi imprimere un’accelerazione formidabile al progetto durante l’incarico di Governatore della Banca d’Italia e dedicarsi con cura, fino alla fine dei suoi giorni, a fare della Luiss un’accademia di eccellenza.

Colpisce, oggi, l’attualità del suo pensiero: l’idea che formare la classe dirigente significhi innanzitutto farle conoscere il mondo, la fiducia nel merito e nel potere della conoscenza, la consapevolezza che l’apprendimento non finisce mai. Una regola che valeva innanzitutto per lui. Carli parlava perfettamente inglese, francese, tedesco e spagnolo. Leggeva Tolstoj in lingua originale per imparare il russo. E avrebbe voluto aggiungere il cinese. Maestro in molte cose, non smise mai di essere allievo in altre. The Future of Jobs era già scritto: ricordare chi lo aveva visto, fare memoria, aiuta ad affrontarlo senza paura.

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