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Amnesty International ha incaricato investigatori esterni di esaminare con “un’inchiesta esterna, completa e indipendente” due suicidi avvenuti tra i membri del proprio personale nel giro di poco più di due mesi.

Roz McGregor, 28 anni, una stagista di Leatherhead, nel Surrey inglese, si è tolta la vita soltanto cinque settimane dopo che il 26 maggio Gaëtan Mootoo, 65 anni, ricercatore veterano anche abbastanza famoso, era stato  trovato morto suicida negli uffici di Parigi della più importante organizzazione per i diritti umani del mondo.

Mootoo ha lasciato una nota in cui si lamentava delle pesanti pressioni sul lavoro e della mancanza di sostegno da parte della direzione: carichi di lavoro eccessivi, stress, competitività. Situazione simile per McGregor: i suoi famigliari dicono che Amnesty non ha risposto adeguatamente quando la ragazza ha sviluppato “ansia acuta” durante i suoi cinque mesi presso l’ufficio di Ginevra.

Le preoccupazioni arrivano in un momento in cui il settore delle ong è finito sotto accusa per gli scandali sugli abusi sessuali interni di Oxfam e Save the Children, con ricadute ovvie sulle condizioni di lavoro dei propri dipendenti, che Elizabeth Griffin, del centro per i diritti umani della Essex University, autrice di una ricerca su Amnesty e altre ong, ha definito sul Times di Londra “molto desolanti”. “Esiste quello che molti membri del personale definiscono come ‘un ambiente tossico’ all’interno dell’organizzazione, contrassegnato da aspre dispute e divisioni tra direzioni. Una ricerca che indica “un fallimento organizzativo quasi completo nel sostenere il dovere di diligenza”.

McGregor, stagista retribuita, lavorava nella squadra ristretta di Amnesty all’interno della sede delle Nazioni Unite di Ginevra — uffici presso cui si tengono, per esempio, i talks sulla guerra civile siriana. Svolgeva funzioni di rappresentanza per l’organizzazione durante le riunioni ufficiali dell’Onu, ma nelle ultime settimane della sua vita aveva sviluppato insonnia e problemi legati all’ansia. Srmbrerebbe che la cosa sia stata sottovalutata, e lei non abbia ottenuto assistenza e cure adeguate. Era tornata a casa in Inghilterra in ferie: cinque giorni dopo si è uccisa.

Il padre ha detto al Times di aver ricevuto un rapporto dal dipartimento risorse umane di Amnesty, ma ritiene che lo staff dell’organizzazione non abbia affrontato molto i problemi di sua figlia: “Perché si è tolta la vita? Non c’erano precedenti tentativi di suicidio, lei aveva condotto una vita attiva e avventurosa. Perché verso la fine di aprile ha iniziato a soffrire di insonnia, di cui non aveva mai sofferto prima? Perché allora ha faticato a trovare assistenza medica a Ginevra?”.

Come sia possibile che una ventinovenne nel giro di due mesi abbia sviluppato livelli di stress (lavorativo?) talmente alti da rivelarsi fatali sarà l’oggetto dell’inchiesta indipendente lanciata da Amnesty. L’ong non può permettersi criticità: è una questione esistenziale.

Colm Ó Cuanacháin, senior director dell’ufficio del secretariato generale di Amnesty International, ha affidato un commento ad AFP, dicendo che l’organizzazione “tratta queste tragedie con la gravità e la priorità che meritano”. Ha aggiunto: “Non possiamo mai confrontare l’impatto che le due tragedie hanno sulle famiglie con le nostre reazioni all’interno di Amnesty, ma anche noi siamo scioccati e devastati dalla perdita della nostra amata collega Gaetan Mootoo e da una giovane donna brillante e stimolante, Roz McGregor , che ha avuto un grande impatto nel suo breve periodo con noi”.

Negli ultimi anni, Amnesty, come altre organizzazioni simili, ha stabilito programmi per garantire il benessere del personale, ha incaricato esterni per gli screening su condizioni di salute e benessere psicologico, ha creato un gruppo di sostegno peer-to-peer e un servizio di consulenza 24 ore su 24. Ma forse non basta.

I tributi su Facebook a Mootoo, che aveva lavorato per Amnesty per 32 anni, esprimevano preoccupazioni per l’ambiente di lavoro. Un post parlava di un movimento sempre più ossessionato dai “media hits” e dai “retweet”, ossia dal consenso.

Una psicologa italiana che ha lavorato anche con le organizzazioni non governative in Italia (che preferisce non essere menzionata per “ragioni di privacy professionale”, così dice) ci spiega che i dipendenti delle ong si trovano a operare a contatto con condizioni a elevato potenziale emozionale, un contesto che già di per sé turba le sensibilità umane. In più c’è lo stress legato alla lettura che si fa del loro lavoro, diventato, almeno in Italia, contestato dal governo e da parte dei cittadini per il ruolo sospetto di cui sono accusate nel soccorso ai migranti. Anche lei però sottolinea come in generale a creare ultrriori tensioni possa essere anche l’elevata competitività interna.

 

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