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Nel dibattito sulla politica economica in corso poca attenzione è stata rivolta al fatto che il cuore del problema sono le ipotesi di crescita nel 2019 e negli anni immediatamente successivi. Se tali ipotesi non si realizzeranno, il deficit sarà maggiore dello stesso 2,4% del Pil programmato per l’anno prossimo, mancando il paracadute del Quantitative Easing lo spread andrà alle stelle, il rapporto debito-Pil sarà tale da far temere l’insolvenza e richiedere una ristrutturazione. Con le conseguenze politiche (almeno per via Venti Settembre) che si possono immaginare.

Il governo basa la propria politica economica (e quindi i saldi di finanza pubblica) sull’assunto che nei prossimi anni il Pil aumenterà a saggi annui o dell’1,5-1.7% grazie, principalmente, alla crescita dei consumi (imputabili al reddito di cittadinanza) e a un vigoroso programma d’investimenti pubblici.

Nella ultima tornata di previsioni economiche (circa due mesi fa), i 20 istituti che fanno parte del gruppo del consensus (tutti privati, nessuno italiano) stimano invece un rallentamento della crescita del Pil che, l’anno prossimo, farebbe fatica a raggiungere l’1%. È in atto un rallentamento mondiale (con l’eccezione degli Stati Uniti) che incide sul nostro export tradizionalmente uno dei volani della crescita del nostro Paese. I dati Istat sull’economia italiana suggeriscono un rallentamento molto marcato, nell’ultima fase dell’anno. Stiano, quasi, scivolando a crescita piatta: per raggiungere, da crescita piatta, un aumento medio del Pil dell’1,5-1,6% nel 2019. Un semplice calcolo aritmetico mostra che nell’ultimo trimestre dell’anno prossimo dovremmo galoppare a circa il 3% l’anno. Un quadro da Alice nel Paese delle meraviglie.

Possono il reddito di cittadinanza e gli investimenti pubblici cambiare le prospettive deludenti per l’Italia nell’immediato futuro? Del reddito di cittadinanza si sa troppo poco per azzardare stime. Ci vorranno comunque mesi e mesi prima che le risorse stanziate vadano nelle tasche dei cittadini e questi ultimi le spendano: riforma dei centri per l’impiego, decreti attuativi, circolari amministrativi. Probabilmente (e realisticamente) prima del 2020 non verrà speso dai beneficiari che qualche euro – somme non tali da incidere sui consumi aggregati nel 2019.

L’utilizzo dell’investimento pubblico come leva per la crescita è ineccepibile sotto il profilo teorico. Come ha sottolineato su questa testata, Pasquale Lucio Scandizzo, consigliere del ministro dell’Economia e delle Finanze. L’investimento pubblico, se articolato in progetti ben concepiti e rigorosamente valutati dal punto di vista finanziario, economico e sociale, ha, di norma due effetti: nella fase di cantiere, utilizza fattori produttivi (capitale e lavoro) non totalmente impiegati; nella fase a regime, la maggiore dotazione di capitale sociale da esso creata contribuisce all’aumento della produttività.

L’investimento pubblico era pari al 3,5-4% del Pil negli anni Ottanta, ma è sceso al 2,5% del Pil negli anni del riassetto dei conti pubblici per entrare nell’eurozona. Negli ultimi ha faticato a raggiungere e superare il 2% del Pil, livello del tutto inadeguato come dimostrato da numerosi studi anche della Banca europea per gli investimenti. L’inadeguatezza del parco infrastrutture non è un problema soltanto italiano ma di tutta l’eurozona, particolarmente acuto in Germania, come sanno di tutti coloro che in estate viaggiano sulle autostrade, ad esempio, della Baviera. Basta, però, leggere l’ultimo saggio del principale e più ascoltato consigliere economico del Cancelliere tedesco Angela Merkel, Han-Werner Sinn della Ludwigs-Maximilians Universitaat di Monaco (The ECB Fiscal Policy CESifo, Monaco aprile 2018), per capire che non spira aria buona rispetto alle idee di deroghe o golden rules per la spesa pubblica in conto capitale dalle parti del maggior azionista dell’Unione monetaria.

A mio avviso, ci sono ostacoli molto più seri delle regole nei Trattati europei. Il primo è la mancanza di una platea di progetti sufficientemente dettagliati (progettazione esecutiva, computi metrici, ecc.) da poter essere “cantierati”. Era un ostacolo già negli ultimi anni del secolo scorso. E si è acuito dalla crisi del 2008. Nelle pubbliche amministrazioni, la riduzione progressiva e continua della spesa in conto capitale non incoraggiava certo a lavorare per tradurre idee in progetti preliminari e tanto meno esecutivi. È sufficiente constatare che il fondo rotativo per la progettazione presso il ministero dell’Economia e delle Finanze è stato poco utilizzato e che sorte analoga hanno avuto i fondi per la progettazione presso le Regioni. C’erano progetti veri e propri sottostanti la “legge obiettivo”. La “struttura di missione” per l’attuazione della legge è stata sciolta nell’autunno 2016, la documentazione inviata alle varie Direzioni generali del ministero delle Infrastrutture perché la riesaminassero e prendessero in carico. L’intera operazione ha avuto una lunga battuta d’arresto.

Il secondo ostacolo è il disperdersi della cultura della progettazione e valutazione (specialmente d’infrastrutture) molto forte in Italia negli anni del “miracolo economico” e che si è tentato di rilanciare negli anni Ottanta. L’Unità di valutazione del ministero dell’Economia e delle finanze è stata smembrata: parte dei suoi componenti è ora presso la Presidenza del Consiglio e parte presso l’Agenzia per la coesione. Da lustri, non pubblicano più manuali, guidelines settoriali, studi analitici. Non si sa nulla del loro lavoro. Dal 1995 al 2009, la Scuola superiore della Pubblica amministrazione (ora Scuola nazionale d’amministrazione) ha tenuto oltre 150 corsi in materia di valutazione di piani e progetti; i docenti non provenivano solo dalle università, ma anche dalla Banca Mondiale, dalla Banca europea per gli investimenti e da società di progettazione. Dal 2006, tali corsi erano in larga parte finanziati dall’Unione europea. Dal 2010, il programma è stato chiuso e gli oltre 5mila funzionari e dirigenti formati dispersi in uffici che poco hanno a che fare con le materie in cui sono stati formati. Anche Scandizzo ha scritto che c’è molto da fare prima di rimettere la macchina in moto. L’impatto sulla crescita nel 2019 sarà nullo o quasi.

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