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Gli investimenti diretti cinesi in paesi coperti dal grande piano geopolitico del presidente Xi Jinping che va sotto il nome di Nuova Via della Seta (acronimo inglese Obor, One Belt One Road) sono diminuiti del 15 per cento nell’ultimo trimestre: è il ministero del Commercio di Pechino a renderlo noto, specificando che si tratta di 7,68 miliardi di dollari, pari al 12,3 per cento del totale degli investimenti diretti in uscita della Cina da gennaio a giugno.

Il piano cinese lanciato un anno fa consiste nel costruire infrastrutture per favorire le relazioni commerciali tra paesi di Asia, Europa e Africa, e da quelle creare un sistema di connessioni fisiche difficile da interrompere. I tentacoli cinesi fatti di strade, ferrovie e porti sono vie di penetrazione con cui Pechino, attraverso economia e commercio, vorrebbe costruire un sistema geografico, culturale e politico sino-centrico (che attraversa 71 paesi, per oltre la metà della popolazione e un quarto del prodotto interno lordo globale).

Operazione controversa perché, per esempio, secondo uno studio di tre mesi fatto dal Center for Global Development (non-profit di Washington che si occupa di sviluppo internazionale), Obor aumenta il rischio di indebitamento in otto paesi, tra cui Pakistan, Gibuti, Maldive, Laos, Mongolia, Montenegro, Tagikistan e Kirghizistan. Aree interessate dagli investimenti infrastrutturali cinesi in partnership con realtà locali (la Cina mette i soldi, ma poi crea vincoli di restituzione e indebitamento, che possono diventare una sorta di giuramento di fedeltà). Ovviamente Pechino si difende sostenendo che le operazioni sono effettuati dalle aziende in base alla situazione del mercato e che il prestito cinese non ha causato una crisi del debito in nessuno dei suoi partner di cooperazione.

La situazione cinese è delicata. L’autorevole Nikkei Review ha emesso un verdetto chiaro, pubblicando per prima i dati sulla crescita economica del Dragone, che rallenta con una contrazione dello 0,1 per cento nel secondo trimestre e una media finale del 6,6, ossia tre decimi di punto in meno delle previsioni. Situazione legata anche – o soprattutto – allo scontro ingaggiato con gli Stati Uniti; scontro destinato a rallentare il ritmo dell’export attraverso l’innalzamento delle tariffare decise dall’amministrazione Trump.

La Cina sta già provando iniziative statali: la Banca popolare pressa le banche locali verso uno swap bancario da oltre 150 miliardi di dollari con cui scambiare debito aziendale con azioni; il governo pensa a una riduzione fiscale a carico delle imprese da 9,6 miliardi per allargare la piattaforma che gode degli incentivi, finora limitata alle startu-up tecnologiche;  “La politica fiscale proattiva diventerà più attiva”, ha scandito la radio di Stato cinese, citando una nota diffusa a margine di una riunione di governo presieduta dal premier Li Keqiang.

Contemporaneamente, davanti a queste mosse, il Fondo monetario internazionale ha chiesto alla Cina di evitare misure di stimolo eccessive, e di concentrarsi sulle politiche di contenimento dei rischi sistemici. Un rapporto politico del Fmi spiega che questo genere di iniezioni di aiuti pubblici, sebbene possa favorire l’economia cinese nell’assorbire le turbolenze globali, potrebbe aumentare le vulnerabilità interne cinesi, e soprattutto provocare tensioni. Gli Stati Uniti, per esempio, contestano alla Cina pratiche economico-commerciali scorrette, fatte sia di spionaggio industriale e furti di proprietà intellettuale con la collaborazione di agenzie governative, sia di incentivazioni statali che violano le regole del Wto, e sia attraverso la svalutazione della valuta.

Questione, l’ultima, tornata di recente alle cronache per le accuse dirette della Casa Bianca: “La Cina non ha alcun desiderio di stimolare le proprie esportazioni tramite la svalutazione competitiva della sua valuta”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Geng Shuang, che ha poi accusato gli Usa di essere “determinati a provocare una guerra commerciale”: la Cina, ha detto Geng, “non vuole una guerra commerciale, ma non ne è spaventata”.

Nelle ultime settimane si è osservato comunque una progressiva svalutazione dello Yuan: possibile che con l’obiettivo non dichiarato sia quello di assorbire i dazi trumpiani e recuperare competitività negli scambi con gli Stati Uniti (se il rapporto col dollaro scende sotto una certa soglia, le tariffe avrebbero effetto nullo per la Cina); sebbene è possibile che la mossa sia legata al rallentamento della crescita economica.

tesoro trump cina

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