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“Non sono affatto sorpreso. Neanche l’intelligence americana è davvero sorpresa, perché questo è esattamente il proseguimento del summit di Mosca in cui Putin sperava”. Ian Bremmer aspettava da giorni l’ufficializzazione di un nuovo incontro fra Donald Trump e Vladimir Putin. Il politologo americano, presidente dell’Eurasia Group e firma di punta del Time, è stato il primo a fare dell’analisi del rischio geopolitico un vero e proprio business. Per questo non è cascato dalla sedia quando ha scoperto che il Cremlino ha svelato i preparativi per un altro faccia a faccia fra il presidente americano e lo zar russo. Né ha stralunato gli occhi come ha fatto Dan Coats, direttore della National Intelligence, quando nel bel mezzo di un incontro all’Aspen Security Forum gli è giunta la notizia dell’invito di Putin negli States. “Avete visto la reazione imbarazzata di Coats? Insomma, ha saputo in diretta dell’ufficializzazione, senza essere avvisato prima” commenta divertito Bremmer ai microfoni di Formiche.net. “È il segno di una chiara frattura fra la comunità di intelligence americana e l’amministrazione Trump. Non è la prima volta che viene presa alla sprovvista. Quando ho dato la notizia di un secondo incontro fra Trump e Putin al G20 di Amburgo ho scoperto che nessuno era stato avvisato. Si sono alzati da tavola, hanno parlato per un’ora in disparte, peraltro senza un traduttore americano, un’aperta violazione del protocollo di intelligence, e la notizia non era uscita fuori. L’ho saputo solo grazie a chi era seduto a tavola”.

Bremmer ha una certa dimestichezza con gli ambienti diplomatici. Trascorre le sue giornate fra trasmissioni tv, colazioni con ambasciatori, pranzi con premi Nobel e cene con capi di Stato, è il suo lavoro. Ha raccolto gli umori di amici interni alla diplomazia americana e la bocciatura del summit di Helsinki è pressocché unanime. “Un dialogo durato quasi due ore in una stanza chiusa e non sappiamo cosa si sono detti, se hanno trovato un accordo per cooperare sul Russiagate o su altri dossier di politica estera, nulla. Peggio: non c’è stato neanche un comunicato congiunto, che negli incontri di questo livello è l’unico appiglio per ottenere qualcosa di concreto”. Eccezion fatta per la forma, che in questi casi è decisiva tanto quanto il contenuto, la lettura del politologo si scosta dalla versione data dai media mainstream.

Se infatti c’è un chiaro sconfitto dal vis a vis in Finlandia, è più difficile individuare un vincitore. “Chi ha perso è Trump, non gli Stati Uniti”, dice. “Gli States rimangono la prima potenza al mondo, hanno la valuta di riserva mondiale, sono i più grandi produttori di energia. È Trump che ha perso credibilità, è diventato più vulnerabile. Ha cercato a tutti i costi un rapporto personale con Putin molto più che con qualsiasi altro leader, ignorando le indicazioni dei suoi consiglieri, che hanno cercato di spiegargli che la Russia è un avversario”. Sbaglia però chi vede in Putin il vincitore, spiega Bremmer: “continuano a dirlo tutti, ma io non sono affatto convinto. È vero, è riuscito a farci fare una figuraccia. Ma il suo consenso in patria sta calando a vista d’occhio, l’economia russa sta soffrendo, le infrastrutture, a dispetto della vetrina del Mondiale, sono disastrate. Putin è un giocatore di poker, non di scacchi. Non ha una visione di lungo periodo come Xi Jinping“.

Incontrare Putin un’altra volta, a poca distanza dal tanto contestato summit di Helsinki, può creare un precedente fatale per Trump. I colonnelli repubblicani, attraverso i ruggiti dello speaker del Congresso Paul Ryan e del leader al Senato Mitch McConnell, hanno già fatto sapere di non aver alcuna intenzione di ospitare lo zar a Capitol Hill. Gli stessi dubbi sono stati sollevati dall’intelligence e da una parte dell’amministrazione. “Nessuno si schiera dalla parte di Trump quando avalla questa linea pro-Russia e c’è più di un buon motivo. Allentare le tensioni con Mosca porta senz’altro dei vantaggi, ma farlo adesso è semplicemente impossibile. Almeno finché i russi non rispetteranno gli accordi di Minsk e non collaboreranno per una soluzione pacifica della guerra in Siria” chiosa Bremmer. Per di più il tempismo per un invito di Putin a Washington è pessimo, conclude: “il Russiagate sta entrando nel vivo e non ha ancora iniziato a scalfire le sfere più alte dell’amministrazione, le elezioni di mid-term si avvicinano. Temo che di questo passo Trump rimarrà sempre più solo e perderà la sua legacy. E quando Trump è alle strette rischia di creare seri problemi su dossier molto sensibili. Le minacce all’Iran sono il primo campanello d’allarme”.

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