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“Se l’Europa crede nel libero commercio, siamo pronti a firmare un accordo di libero scambio”, ha detto il segretario al Tesoro americano, Steven Mnuchin al raduno dei ministri finanziari del G20 a Buenos Aires, concluso senza grossi colpi di scena. “Ci rifiutiamo di negoziare con una pistola alla nostra testa”, ha risposto il francese Bruno Le Maire. È questo il clima, non troppo rilassato.

L’amministrazione Trump ha irritato gli alleati europei imponendo dazi all’importazione del 25 per cento sull’acciaio e del 10 per cento sull’alluminio, provocando una rappresaglia dell’Unione europea con quantità simili di tariffe per le motociclette Harley-Davidson, il Kentucky bourbon e altri prodotti. Mentre balla una tariffazione sempre del 25 per cento sulle importazioni automobilistiche, che colpirebbe sia l’Europa che il Giappone – da poco in stretta partnership commerciale dopo la chiusura dell’accordo Jefta.

Senza un passo indietro americano, l’Ue potrebbe rifiutarsi di avviare negoziati commerciali con gli Stati Uniti, fa capire Le Maire. Anche il G20 di Buenos Aires, come tutti i consessi multilaterali, sente il peso del neo-nazionalismo America First che Donald Trump vorrebbe imporre agli Stati Uniti, anche se a giocare le carte per Washington in quest’occasione è stato un cultore del libero mercato come Mnuchin, ex capo di Goldman Sachs (gigante degli investimenti bancari i cui profitti, tra l’altro, in questo secondo trimestre hanno sorpassato le stime degli analisti finanziari).

Il segretario al Tesoro ha fatto un’offerta per riaprire i contatti con gli alleati, mentre con la Cina esplode sul campo commerciale un confronto che gli americani soffrono sul piano esistenziale: Pechino, dicono gli Usa, sta rubando la scena a Washington come potenza di riferimento globale. Trump tre giorni fa ha minacciato di imporre tariffe doganali per tutti i i 500 miliardi di dollari che i cinesi esportano ogni anno verso gli Stati Uniti, a meno che la Cina non accetti importanti modifiche strutturali alla sua economia.

Una situazione che il Fondo monetario internazionale valuta piuttosto pericolosa: la direttrice Christine Lagarde ha scelto il G20 – ossia il palcoscenico più interessato agli scenari macroeconomici – per presentare il report già stilato dalla sua organizzazione secondo cui la trade war tra Stati Uniti e Cina, e le politiche dei dazi, si tradurrebbero in una contrazione della crescita globale dello 0,5 per cento. Mentre poco prima Mnuchin aveva invece cercato di smorzare la situazione, dicendo che non c’era ancora “un effetto macro” sulle politiche trumpiane (la scorsa settimana Maurice Obstfeld, capo economista del Fmi, aveva dichiarato presentando lo studio: “Il rischio che le attuali tensioni commerciali aumentino ulteriormente, con effetti negativi su fiducia, prezzi delle attività e investimenti, è la più grande minaccia a breve termine per la crescita globale”).

La rassicurazione di Mnuchin sull’assenza di macro effetti era la seconda che il segretario si è trovato a dare ai colleghi delle venti più grosse economie del mondo prima e durante il vertice argentino. Sabato, era stato costretto a precisare le parole del presidente Trump, che il giorno prima, durante un’intervista televisiva, aveva attaccato sia la Cina che l’Unione Europea, colpevoli di svalutazione monetaria ai danni del dollaro; accusa che poi era toccata addirittura alla Fed, colpevole di creare svantaggio alla moneta americana con la politica di rialzo dei tassi.

Si tratta di un grosso argomento quello interno, su cui il segretario al Tesoro ha dovuto precisare la massima indipendenza della Federal reserve dalla Casa Bianca, e l’assenza di frizioni tra le due istituzioni che avrebbero potuto preoccupare gli investitori globali. La scorso settimana, per altro, durante l’audizione semestrale davanti al Congresso, il presidente della Fed nominato da Trump, Jerome Powell, aveva spiegato che era grazie alla crescita credibile e alla creazione di nuovi posti di lavoro il motivo per cui la banca centrale americana avrebbe alzato i tassi di interesse come previsto.

Powell però, come il Fmi, aveva citato le politiche commerciali e fiscali dell’amministrazione Trump come fattori di instabilità. Attenzione, se la crescita frena anche il programma di governo si ferma, ha avvisato da Buenos Aires il ministro italiano Giovanni Tria, che ha avuto un faccia a faccia riservato con Mnuchin: “Sono già uscite le stime da parte dell’Ue che segnalavano un rallentamento dei principali paesi europei. L’Italia segue il profilo della congiuntura internazionale”, ha spiegato il titolare di Via XX Settembre. Stessa linea seguita dal governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che dal G20 ha commentato ai microfoni di Radio Rai che “non è chiaro se il rallentamento è legato a misure protezionistiche, ma in parte può essere all’incertezza causata alle dichiarazioni sulla chiusura dei mercati e l’aumento dei dazi”: incertezza che “blocca gli investimenti e si rischia di mettere in moto un rallentamento pericoloso”.

(Foto: Twitter, @Mef_gov)

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