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Il presidente turco, Recep Tayyp Erdogan, e l’omologo russo, Vladimir Putin, si incontrano a Sochi per parlare di Siria, con un occhio sulla situazione di Idlib, in una fase in cui il futuro del paese potrebbe andare verso altri cambiamenti.

La riunione nel buen retiro di Putin, sul Mar Nero, non era preventivata – una “visita di lavoro” la chiamano le note delle due segreterie di stato – e sono le circostanze sul campo, ma ancora di più le dinamiche politiche collegate e quelle successive, a renderla necessaria. “La situazione è complicata. Ci sono alcune differenze di posizione e questo è il motivo per cui si richiedere una discussione molto seria al livello più alto”, ha anticipato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, e questo nel linguaggio navigato del megafono di Putin significa che una crisi è in corso.

“Il Mondo ci guarda”, dice il turco mentre tira in ballo i rischi umanitari: la collaborazione con la Russia è “speranza” per la regione. Bene cercare insieme “soluzioni” laddove ancora non esistono, rilancia Putin.

Per due anni la Turchia è stata l’entità che ha permesso alla Russia di costruire un barlume di credibilità attorno al processo negoziale che Mosca s’è intestata in alternativa all’Onu. Il sistema trilaterale che si riunisce ad Astana comprende Ankara e Teheran, ma mentre i secondi sono partner scomodi e fin troppo obbligati (da costruzioni ideologiche e interessi sovrapposti) per i russi, i turchi – da sempre sostenitori dell’opposizione al regime siriano – sono un bilanciamento che serve per rafforzare quel ruolo di mediatore universale anche sul più importante bubbone internazionale che la Russia di Putin intende darsi (a proprio vantaggio).

Però l’avanzata russa-iraniana-siriana su Idlib – ultima roccaforte ribelle, dove la Turchia ha interessi diretti legati alla potenziale crisi migratoria che rischia di innescarsi, ma anche politici – sta sgretolando il sistema di pesi e contrappesi con cui Mosca ha cercato di rendere potabili a livello internazionale i negoziati di Astana.

I dialoghi guidati dai russi nella capitale kazaka si fondavano su una piattaforma condivisa pragmaticamente da tutti e tre i protagonisti, che aveva come presupposti: la creazione delle zone di de-escalation dove poter salvaguardare parte delle opposizioni, il repulisti tra i gruppi ribelli jihadisti per far diventare la Turchia unico sponsor esterno delle posizioni anti-Assad, il posizionamento della Russia come ago della bilancia (garante di tutte le parti in causa: un modo per far valere i propri interessi, ma anche per costruirsi un volto da honest broker davanti agli occhi della Comunità europea, sfregiata dalla violenza anacronistica dell’annessione crimeana e dall’aggressività avventurista della politica putiniana).

Idlib è il pettine in cui i nodi irrisolti di Astana vengono al pettine: le de-escalation zone si sono rivelate una tattica governativa (avallata da russi e iraniani) per favorire la ripresa del territorio al regime, chiudendo via via il cerchio, fino appunto a Idlib, diventata un riserva indiana per i gruppi armati. Le opposizioni, schiacciate, si sono via via radicalizzate: la Turchia non è riuscita a isolare le milizie jihadiste (che si rifanno ad al Qaeda) e anzi ha visto alcuni gruppi amici subire smottamenti verso posizioni più estremiste.

Ma la Russia, a questo punto, si trova in difficoltà: mentre Erdogan chiede di evitare una campagna totale, Mosca vuol garantire a Bashar el Assad la maggiore capacità territoriale possibile, pressata anche dall’Iran, e per farlo deve permettere al regime di riconquistare Idlib. L’avanzata però inciampa sugli interessi turchi, che vorrebbero mantenere in piedi qualcosa delle opposizioni alleate, e non perdere politicamente la faccia facendosi zerbino degli altri due di Astana – contemporaneamente Ankara pensa all’interessa nazionale, ossia a evitare che azioni pesanti degli assadisti inneschino ondate migratoria verso i suoi confini (Idlib dista meno di sessanta chilometri dalla Turchia).

“La nostra solidarietà su questioni regionali darà speranza alla regione. Credo che in questo momento non solo la nostra regione, ma il mondo intero stiano guardando a quello che accade a Sochi”, ha dichiarato Erdogan all’inizio dell’incontro. Il presidente turco già il 7 settembre, nell’ultima delle riunioni del processo di Astana, tenuta in Iran, aveva ufficialmente chiesto agli altri due partner un immediato cessate il fuoco, ottenendo però risposte negative: bisogna schiacciare i terroristi, dicevano Mosca e Teheran – a Idlib ci sono un paio di dozzine di migliaia di combattenti, almeno 10mila sono collegabili ai gruppi jihadisti, ma ci sono anche circa tre milioni di civili, rifugiati lì su invito del regime per sfuggire alle offensive precedenti.

“Combattiamo insieme contro i gruppi terroristici che si annidano tra i ribelli. Ma questa non deve diventare una scusa per bombardare” Idlib, ha detto Erdogan partendo per Sochi, annunciando che entro fine mese si recherà anche all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e in Germania. Ankara è protagonista di un forcing: tre giorni fa, in Turchia si sono riuniti i rappresentati diplomatici di Russia, Francia e Germania, perché Erdogan adesso vuol provare a coinvolgere anche altri attori. Francia e Germania sono una rappresentanza occidentale che i turchi possono usare come dissuasione diplomatica contro i russi: il processo di Astana ha favorito l’allontanamento della Turchia dall’asse Western – quello con Ue e Usa – ma Idlib è l’emblema di come dalla Siria escono dinamiche fluide con riscontri internazionali.

Intanto, domenica, poche ore prima dell’incontro con Putin, secondo Hurriyet almeno cinquanta mezzi militari turchi avrebbero solcato il confine per arrivare a Jisr al Shugur, nel sud della provincia di Idlib, dove si concentrano i bombardamenti russo-siriani per aprire la strada verso Idlib. Là i turchi hanno uno dei 12 punti militari di osservazione avanzata in territorio siriano che la Russia ha concesso nell’ambito dei colloqui di Astana.

Il rafforzamento militare ha un doppio scopo. Da una parte la Turchia rilancia la propria determinazione a combattere i gruppi jihadisti, seguendo la linea russa, come unico appiglio per prendere tempo ed essere ascoltato da Mosca (e Damasco e Teheran, che sono piuttosto lanciati su Idlib). Dall’altra serve per marchiare il territorio, una presenza utile per scoraggiare azioni troppo avventate e indiscriminate da parte del regime – Ankara è ancora un membro Nato.

 

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