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George Bush senior, al contrario di tutti i suoi successori, è stato presidente di un solo mandato, dal 1989 al 1993. È un elemento da considerare nel giudizio storico che oggi, al momento della sua scomparsa, siamo chiamati a dare su di lui. Perché dimostra che, pur essendo la politica estera e l’economia i due motori della politica statunitense, è poi sulla seconda che si gioca effettivamente il consenso dei cittadini. Agli occhi dei quali Bush ebbe il principale torto di non aver abbassato le tasse, come da lui stesso promesso, e di aver interrotto più in generale quel periodo aureo e florido di benessere a cui aveva dato corpo il suo predecessore.

Succedere a Ronald Reagan, il più rivoluzionario dei presidenti americani e quello che più ha influito sulla storia del secolo scorso (insieme a Frank Delano Roosevelt ovviamente), non era facile. Anche perché, rispetto a lui, Bush, che pur era stato suo vicepresidente, rappresentava un tipo classico di conservatore, poco aduso a farsi promotore di radicali cambiamenti e amante di quella pace e tranquillità che sola garantisce la prosecuzione degli affari. Che, nel suo caso, erano gli affari di una ricca famiglia (diventata poi dinastia coi figli) di petrolieri del Texas. Non è un caso che i Bush, e non solo Jeb che lo ha sfidato alla nomination repubblicana, siano stati invisi a Donald Trump, che, pur essendo ricchissimo anche lui, ha vinto le elezioni anche in nome di un riscatto popolare contro le dinastie politico-economiche, di destra e di sinistra, che governavano l’America. Che con Trump ci fosse una ostilità quasi epidermica lo si è notato anche nelle occasioni pubbliche più ufficiali, ma paradossalmente Trump sembrava molto più “moderno” e cool di Bush.

Tante cose sono cambiate in questi anni anche nel modo di essere e di comunicare dei politici: l’understatement bushiano non è, a tutta evidenza, più adatto ai nostri tempi esagerati ma anche “interessanti”. Che comunque qualcosa stesse cambiando anche nella comunicazione della politica lo si era visto anche nella guerra lampo del Golfo, l’evento più significativo della presidenza Bush. Non solo perché essa dimostrava al mondo intero la potenza di fuoco che era in grado di dispiegare quella che era l’unica potenza globale restata sul terreno (la Cina era ancora molto di là da venire); ma perché quella fu la prova che ormai le guerre del futuro si sarebbero combattute dall’alto, con precisione chirurgica e con effetti spettacolari hollywoodiani che sarebbero stati parte altamente simbolica della guerra stessa (giusta l’interpretazione di Jean Baudrillard secondo cui “la guerra del golfo non è mai esistita”; e ciò è vero almeno nel senso tradizionale che eravamo adusi a dare al termine “guerra”).

In definitiva, Bush ci appare vicino perché il nostro mondo è stato determinato anche dalle sue scelte, ma ci appare anche molto lontano. “L’epoca dell’immagine del mondo”, per dirla con le parole visionarie di Martin Heidegger, è sempre più “immagine” e sempre meno quel “mondo” classico in cui un politico come Bush pur restava profondamente radicato.

Bush senior. Quel presidente così vicino eppure così lontano

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