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Oggi, nel buen retiro di Vladimir Putin a Sochi, arriverà la Cancelliera tedesca Angela Merkel per incontri di alto livello su quattro dossier piuttosto caldi: Siria, Iran deal, Nord Stream, Ucraina. Andiamo con ordine su questa serie concatenata di argomenti su cui forse il russo potrebbe trovare un cambiamento di tono rispetto all’ultima visita della tedesca un anno fa (un riavvicinamento?).

Merkel sa che per risolvere il bubbone siriano, in cui la Germania è coinvolta per l’accoglienza dei rifugiati, sente il peso per i contatti jihadisti interni, e soffre l’impegno politico, diplomatico, militare, deve parlare con Putin.

Ieri il presidente russo, sempre a Sochi, ha ospitato il rais siriano Bashar el Assad. Si è trattato di una visita a sorpresa, un viaggio non programmato come d’altronde sono tutti quelli del presidente dittatore di Damasco, che ancora per muoversi nel suo paese – nonostante stia quasi chiudendo vittoriosamente la guerra civile – deve sfruttare un certo anonimato perché altrimenti rischia di finire sotto i colpi di un’imboscata.

Putin ha detto una cosa importante: ha promesso ad Assad il ritiro delle “forze armate straniere dalla Siria”. Non è completamente chiaro cosa intendesse, difficile parlasse di quelle russe (sarebbe la quarta volta in due anni che annuncia la vittoria nella guerra e il ritiro della Russia, che mai andrà via dalla Siria, in cui s’è costruita un hotspot armato in Medio Oriente con affaccio sul Mediterraneo). Oppure, magari, intendeva quelle iraniane: le forze armate inviate da Teheran sono la carne da cannone ingaggiata in una partnership d’utilità da Mosca per sostenere Damasco (sono composte dai gruppi scelti dei Pasdaran, dai miliziani sciiti, dai guerriglieri Basji).

La loro presenza in Siria è diventata una questione problematica per la stabilità non solo regionale. Negli ultimi mesi Israele ha dimostrato apertamente di non tollerare più la trasformazione in piattaforma militare che gli ayatollah stanno imponendo sul paese mediorientale, ha colpito in profondità gli iraniani sul suolo siriano, ha intavolato sul loro ritiro discussioni diplomatiche, anche con la Russia.

Da qui, dunque: la scelta di ritirarsi dall’Iran Deal, l’accordo sul nucleare iraniano, è stata mossa dall’amministrazione Trump anche sfruttando il contesto d’influenza armata velenosa che Teheran sta diffondendo nella regione. Quello che detestano gli israeliani e i sauditi, alleati americani con cui però anche i russi sono in touch per ragioni diverse: Israele è una potenza militare con cui si deve mantenere aperto il dialogo (anche perché la Russia in Siria, a un passo dal confine israeliano, ha progettato una presenza futura stabile e strategica), l’Arabia Saudita è un produttore di petrolio.

Il contesto è importante perché sta dietro al secondo argomento di colloquio tra il leader russo e la tedesca. L’accordo sul nucleare iraniano è stato garantito da Unione Europea (ieri il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker ha assicurato le aziende europee con una sorta di “statuto di blocco” per le sanzioni, anche se alcune ditte hanno già annunciato di voler lasciare l’Iran) e da Russia e Cina, cofirmatari insieme agli Stati Uniti, che adesso si trovano sulle spalle il peso di dover portare avanti i rapporti con la Repubblica islamica contro le volontà americane.

La dichiarazione di Putin con Assad potrebbe essere letta anche come un modo per garantire Israele, forse anche più profondo delle mosse americane; il contatto con Merkel è d’altra parte una necessità per creare un sistema di protezione più ampio possibile per gli affari in Iran, che garantisca alle ditte russe e a quelle europee di lavorare, difendendosi dagli Stati Uniti, sui settori che il sollevamento delle sanzioni connesso al deal ha riaperto: su tutti, quello energetico.

Sfruttando la linea energetica, Putin cerca di giocare sull’irritazione che il ritiro trumpiano dal deal con l’Iran ha creato in Europa, condividendone preoccupazioni (una della più profonde spaccature nelle relazioni transatlantiche, ha scritto David Ignatius del Washington Post, mentre quelle relazioni erano un pilastro delle politiche strategiche americane). Germania e Russia hanno anche un altro tema energetico che le collega: si tratta di un legame strategico fisico come soltanto i gasdotti possono cucire, il Nord Stream 2. Il raddoppiamento del flusso del gas che la Russia porta verso l’Europa dal quadrante nord, potrebbe rendere la Germania un hub energetico continentale, e permetterebbe a Mosca di aggirare la rotta sud, quella ucraina, e tutte le sensibilità geopolitiche connesse.

Sul dossier, secondo uno scoop del Wall Street Journal, è entrato a gamba tesa il presidente americano Donald Trump, che durante la visita di Merkel a Washington, avrebbe proposto alla tedesca di mollare la partnership con la Russia sul Nord Stream e iniziare a comprare gas naturale liquefatto statunitense “per evitare una guerra commerciale trans-atlantica”; anzi, l’uscita della Germania dall’affare – e dunque l’affossamento dello stesso – sarebbe una necessità per intavolare nuovi accordi commerciali tra Ue e Stati Uniti (il Gnl americano come leverage sulle tariffazioni su alluminio e acciaio europeo, per esempio).

(Nota: il pezzo è uscito ieri, alla vigilia dell’incontro Merkel/Putin: ma magari è stata solo una casualità. Però, sempre ieri a Berlino c’era Sandra Oudkirk, vice segretario di Stato americana con incarico di curare le questioni energetiche, a comunicare al governo tedesco che gli Stati Uniti si oppongono al Nord Stream considerandolo un’ulteriore penetrazione con cui la Russia potrà diffondere le proprie “malign” influenze in Europa).

Trump, con la più grande economia europea e maggiore importatore di gas al mondo, può giocare anche sul peso geopolitico del gasdotto, che in pratica taglierebbe fuori l’Ucraina: Kiev finora ha mantenuto una modesta stabilità perché è il territorio di passaggio con cui la Russia sposta il gas in Europa, ma se le quantità veicolate dal Nord Stream dovessero raddoppiare, i flussi ucraini potrebbero diventare quasi inutili.

Questo significherebbe indebolire l’Ucraina – non solo economicamente, privandola dei proventi dalle concessioni di passaggio, ma anche politicamente, con conseguenze incontrollabili visto che la crisi nel Donbass, scatenata dall’invasione della Crimea, è ancora aperta. Indebolire l’Ucraina è l’opposto di quello che Washington vuole per risolvere il dossier, che per gli Stati Uniti deve passare dalla stabilizzazione militare attraverso una forza di peacekeeping onusiana e poi da quella politica, con misure che rafforzino la stabilità di Kiev, anche economica.

Qui a Merkel è richiesto un ruolo di contatto con Putin: gli americani vogliono che accetti i Caschi Blu come prova concreta di collaborazione, la tedesca ha già detto che la missione Onu è un’ottima soluzione, dunque a lei la palla di trattare con Putin il dossier – visto che, tra l’altro, tra i leader europei è quella più in contatto con il russo.

La Germania ha già chiesto alla Russia garanzie affinché il gasdotto non corrisponda a un ostacolo per l’Uraina. Berlino, all’opposto di Washington, considera (con interesse) il Nord Stream alla stregua dell’accordo con l’Iran come “isole di cooperazione” con la Russia: punti di contatto da cui partire. Gli Stati Uniti, ha invece spiegato Oudkirk, adesso stanno usando i mezzi dissuasivi della diplomazia, ma valutano anche se l’opera da 11 miliardi possa finire oggetto di sanzioni (e con loro tutte le ditte, europee, coinvolte: la tedesca Uniper, l’austriaca OMV, Engie (francese), Wintershall, la multinazionale Royal Dutch Shell).

 

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