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Il discorso tenuto davanti al parlamento per aggiornare sulle indagini nella morte del giornalista saudita Jamal Khashoggi è stato il tappeto rosso dello sforzo con cui il presidente Recep Tayyip Erdogan sta spingendo l’acceleratore della politica estera turca. Un’operazione avviata con maggiore convinzione nelle ultime cinque/sei settimane, e che ha trovato nella macabra esecuzione del dissidente saudita – ucciso da una squadraccia dei servizi segreti di Riad nel consolato del suo paese a Istanbul, il 2 ottobre – spazi eccezionali.

Erdogan pressa i sauditi: il suo intervento davanti ai legislatori è stata la prima uscita ufficiale turca sulla vicenda, ma le autorità di vario livello hanno passato a ciclo continuo informazioni (più o meno vere: molte non vere) ai media locali e internazionali. Un’ondata di indiscrezioni che ha messo Riad spalle al muro e l’ha portata fino all’ammissione di responsabilità, in un braccio di ferro diplomatico vinto da Erdogan a suon di spifferate, che adesso mette Ankara in una posizione di delicato vantaggio nei confronti dell’Arabia Saudita, con cui i rapporti diplomatici sono ai ferri corti per via della faida del mondo sunnita tra Fratelli musulmani (amici: Ankara e Doha) e wahhabiti venuta in superficie con la crisi del Qatar (un qualche tentativo di recuperare sta nelle parole di fiducia espresse dal presidente turco nei confronti di re Salman, altrettanto non utilizzate con il figlio ed erede Moahammed bin Salman, leader dell’attuale lotta al fronte dei Fratelli?).

Il presidente turco – che forse potrebbe usare la situazione per chiedere a Riad di allentare con Doha – ha fatto sapere di conoscere dettagli sensibili della sorte da film horror toccata all’editorialista del Washington Post, argomenti da spendere come contropartita su eventuali altri dossier e nel tentativo già avviato di giocare il ruolo di mediatore e risolutore su crisi di carattere internazionale (e questa di Khashoggi lo è a tutti gli effetti). Ruolo su cui, per esempio, ha fatto retorica durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 25 settembre, rivendicando lo status di “leader globale” per la Turchia, “nonostante non sia una superpotenza economica e militare”. In quel momento il presidente parlava di questioni come la creazione della zona cuscinetto attorno a Idlib, in Siria, grazie a un accordo raggiunto con la Russia e con l’Iran nell’ambito del cosiddetto processo di Astana, creato dai russi per trovare una via di chiusura alla guerra siriana alternativa ai piani Onu.

Sebbene la Comunità internazionale abbia (forse superficialmente) accordato credito a Erdogan per la demilitarizzazione e per aver evitato una crisi umanitaria certamente collegata all’avanzata governativa su Idlib – che in quel momento era imminente – l’intesa con Mosca e Teheran è debole. Entrambi questi paesi vogliono che Damasco riconquisti la piena sovranità territoriale, e ciò implica che prima o poi per ragioni di forza la Turchia dovrà mollare Idlib, dove si sono rifugiate la gran parte delle opposizioni (anche sfruttando lo scudo politico-diplomatico turco).

Allo stesso modo sono andate le cose con l’Europa: la visita di settembre a Berlino è stata pubblicizzata in Turchia come un grosso successo di politica estera per Erdogan, con cui rinfrescare la (improbabile) narrativa sull’adesione all’UE, ma in realtà i suoi incontri sono stati accompagnati da discorsi preoccupati del presidente e della Cancelliere tedeschi sulla crisi della democrazia in Turchia. Una prova importante sarà la prossima visita operativa del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, che arriverà ad Ankara alla guida di una delegazione di 80 leader industriali: Erdogan ha bisogno di rifinanziare la sua economia, ma non può pretendere grossi investimenti dall’Europa se non cambia qualcosa sul trattamento dello stato di diritto.

Però, nel complicato intreccio, Erdogan può rivendicare l’adesione di Francia e Germania al vertice convocato il 27 ottobre a Istanbul per parlare di Siria, insieme a Vladimir Putin – sempre ammesso, fa notare Mar Pierini della Carnegie Endowement, che sia in grado di non farsi usare dal russo contro i leader europei.

Questo ruolo di ponte lo sta giocando anche sull’affare Khashoggi, che ha effettivamente permesso un miglioramento nei rapporti con gli Stati Uniti: Erdogan si aspettava che la vittoria di Donald Trump potesse portare a un riavvicinamento, dopo la relazione personale poco empatica con Barack Obama, ma le cose non sono troppo cambiate (anzi). Però l’assassinio del giornalista e le informazioni raccolte dalla Turchia in merito (evidentemente i servizi segreti turchi hanno ottimi sistemi di controllo e intercettazione con cui tengono sotto controllo le attività dei sauditi a Istanbul) hanno permesso a Erdogan di porsi come interlocutore credibile a Washington. Perfetta la tempistica, durante queste settimane di crisi, del rilascio del pastore Brunson, questione che aveva incrinato ancora di più i rapporti con gli americani (il chierico statunitense era detenuto senza ragioni reali in Turchia e Trump aveva più volte minacciato Ankara se non l’avesse rilasciato).

Ma con gli americani le questioni appese sono pesanti: c’è l’enorme divergenza di vedute sulla Siria, con Washington che non sta mollando il sostegno ai curdi siriani (partner nella liberazione di ampie aree occupate dall’Is), mentre i turchi li considerano un’entità terroristica; c’è l’acquisto dei sistemi terra-aerea S-400 dalla Russia, bannato dagli Stati Uniti e dalla Nato, col rischio di mettere in discussione una commessa di F-35 diretta in Turchia; c’è il caso della Halkbank, banca statale turca accusata dagli Stati Uniti di lavare soldi iraniani per farli uscire dalle sanzioni. Nella sostanza, è il consueto “vorrei ma non posso” quando si tratta di grandi questioni internazionale, come ha scritto Marta Ottaviani su queste colonne.

 

cipro, Erdogan

Erdogan manda la Turchia a tutta diplomazia, ma il mare attorno a lui è in tempesta

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