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Dopotutto non è vero che la sinistra italiana non riesce a fare mea culpa. Sono passati sette mesi dalle elezioni del 4 marzo, fra liti domestiche, dribbling di responsabilità e congressi pianificati, ma alla fine l’esame di coscienza è arrivato. Qualche giorno fa è stato il turno di Marco Minniti, Sandro Gozi, e due socialisti come Riccardo Nencini e Fabrizio Cicchitto. Ora è Carlo Calenda a mettere sotto i raggi x meriti e colpe dei cinque anni di governo di centrosinistra di cui è stato tassello fondamentale come ministro dello Sviluppo Economico prima con Matteo Renzi e poi con Paolo Gentiloni. A Piazza Colonna, nella galleria Alberto Sordi, a due passi dal balcone di Palazzo Chigi dove solo tre settimane fa i grillini esultavano per un Def che lui ritiene pericoloso, Calenda presenta il suo ultimo libro, “Orizzonti selvaggi. Capire la paura e ritrovare il coraggio” (Feltrinelli). Un diario degli anni trascorsi nella stanza dei bottoni che lascia tante pagine per quel che verrà domani, dopo il pentaleghismo. Per far sì che un dopo ci sia davvero bisogna mettersi al lavoro da subito. Niente scaramucce e gelosie interne (facile a dirsi, meno a farsi), ma un Fronte Repubblicano che unisca il meglio della sinistra progressista senza chiudere le porte ad altre figure dal mondo industriale, accademico, sindacale con una diversa storia politica. Così l’ex titolare del Mise sceglie di portare con sé alla presentazione del libro l’ex primo ministro Paolo Gentiloni, il segretario generale Fim Cisl Marco Bentivogli, l’ex ministro del Lavoro Enrico Giovannini.

Sul primo ospite nessuna sorpresa. Da mesi Calenda dice di volerlo mettere a capo del Fronte, magari con un triumvirato assieme a Minniti (ipotesi ora decisamente scemata), “ormai invoco Gentiloni ogni due per tre per coinvolgerlo in qualcosa” scherza l’autore in apertura. Con Giovannini, ex presidente Istat che nel libro è ampiamente citato, c’è un rapporto personale, e forse anche l’idea di coinvolgerlo nella tanto sospirata “segreteria costituente” del nuovo Pd. Con Bentivogli non sono mancate anche dure stilettate durante la lunga e travagliata trattativa per l’Ilva, ma rimane la stima per un sindacalista decisamente atipico, che preferisce i cancelli ai salotti tv ma non ha paura di parlare di politica senza dover piacere per forza a qualcuno. Al solo pensiero di un accordo con il M5S all’indomani delle elezioni Calenda minacciava di stracciare la tessera Pd. Ora però qualcosa è cambiato, e le convocazioni per il Fronte Repubblicano lasciano pochi dubbi.

La sinistra che Calenda chiama a raccolta ha una particolarità che la distingue dal fronte renziano: ha dialogato, o è disposta a un dialogo (condizionato) con il mondo pentastellato. È il caso di Bentivogli, che ha gioito con Luigi Di Maio per l’accordo fra Ilva e Arcelor Mittal dopo mesi di tiro alla fune. Ma anche di Gentiloni, che solo a giugno immaginava un “centrosinistra risorto” che può allearsi “anche con i Cinque Stelle”. Giovannini, che è presidente dell’ASviS (Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile), un tema particolarmente caro alla base grillina, è perfino finito nel totonomi per Palazzo Chigi nelle trattative di maggio.

La galleria Alberto Sordi è affollatissima. “Allora non è vero che la sinistra è morta, speriamo…” sospira il giornalista di Repubblica e direttore di Radio Capital Massimo Giannini, chiamato a presentare l’incontro. In prima fila ci sono volti noti del centrosinistra di governo, soprattutto quote rosa: dall’ex ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli alle ex titolari dei ministeri di Difesa e Sanità Roberta Pinotti e Beatrice Lorenzin. Calenda prende la parola e cerca di spiegare la sua terza via: “Il liberista vuole la massima libertà economica, il sovranista la massima conservazione dell’identità, il progressista vuole la progressione di tutta la società”. La riflessione parte da lontano: “Dopo l’89 ci siamo convinti che l’Occidente avesse vinto, che la Storia fosse finita, che la crescita economica, la mobilità sociale e il multiculturalismo avrebbero avuto la meglio” dice Calenda, “ora tutte queste certezze sono cadute a pezzi”. La sinistra liberal e progressista, quella che ha seguito la terza via di Tony Blair ergendosi ad alfiere della globalizzazione, ha le sue colpe, e infatti arranca un po’ ovunque: “Abbiamo presentato l’integrazione come l’uscita in un ristorante fusion, raccontato alla gente che gli avremmo tolto garanzie per dare più opportunità, derubricato la paura all’ignoranza, ma la paura è legittima”. Ora il Paese è in uno stato di confusione, dice l’ex ministro, e cerca a tutti i costi la rottura, anche contro i suoi interessi: “il 70% degli italiani non vuole uscire dall’euro, ma è pronto a votare partiti disposti ad abbandonare l’euro”. “E invece un po’ di rottura di vuole, serve discontinuità nel modo in cui si è parlato alle persone in questi anni” gli risponde a tono Bentivogli. Per il sindacalista, che senza mai fare nomi punzecchia Maurizio Landini, “il populismo politico è stato trainato dal populismo sindacale” dei talk show, che “abbandonava le trattative per andare a Ballarò”. “Dall’89 la sinistra parla di futuro”, dice Bentivogli, “e adesso l’unico a parlarne è Casaleggio”. Un modello cui guardare? I verdi in Baviera: “Gli under 35 non hanno votato Afd perché sono stati attratti dal messaggio della Schulze, incoraggiare e non fare paura”. Ai Verdi bavaresi guarda anche Gentiloni, che in chiusura mette nel mirino il governo gialloverde: “Dobbiamo fare argine all’Italia del balcone”.

Calenda, gli orizzonti selvaggi e la terza via (rinnegata)

Dopotutto non è vero che la sinistra italiana non riesce a fare mea culpa. Sono passati sette mesi dalle elezioni del 4 marzo, fra liti domestiche, dribbling di responsabilità e congressi pianificati, ma alla fine l’esame di coscienza è arrivato. Qualche giorno fa è stato il turno di Marco Minniti, Sandro Gozi, e due socialisti come Riccardo Nencini e Fabrizio…

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