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Trent’anni fa, a distanza di poche ore, nel 1988, si spengono Pino Romualdi il 21 maggio e il giorno dopo Giorgio Almirante. La destra italiana perde simultaneamente i suoi riferimenti carismatici. Ma non si sente orfana e nessuno pensa che con la loro scomparsa sia destinata all’estinzione.

Entrambi erano stati i fondatori dell’Msi nel dicembre 1946; avevano, con alterne fortune, guidato il partito tra i marosi dell’antifascismo militante; lo avevano fatto diventare un soggetto politico di ragguardevole consistenza elettorale e si erano intestati il suo “rinnovamento” passando la mano, un anno prima, ad una nuova classe dirigente guidata dal giovane segretario Gianfranco Fini. Erano consapevoli che il momento di liberare la destra missina dalle residue scorie del nostalgismo, fosse arrivato. E senza quel passaggio, concretizzatosi anni dopo con la nascita di Alleanza nazionale, qualsiasi altra “operazione” politica sarebbe risultata vana. Le “aperture” che fino a quel momento avevano dato nuovo impulso alla destra italiana, potevano sembrare insufficienti, così come pure la mutazione del partito da “movimento di protesta” a “movimento di proposta”, sarebbe stata vanificata dall’emergere sulla scena di nuovi soggetti e soprattutto dalla necessità di far diventare la Grande Riforma per la Nuova Repubblica il progetto intorno al quale calamitare altre forze politiche, oltre che radicare la destra in un contesto di confronto e di dialettica con chi maturava, in quello stesso tempo, la medesima consapevolezza del rinnovamento delle istituzioni. Un partito, dunque, che fosse all’altezza delle sfide che il vecchio sistema costituzionale non era più in grado di affrontare. Romualdi ed Almirante erano più avanti della stessa classe dirigente missina al punto di “saltare” due generazioni per assicurare un futuro non marginale alla creatura che avevano fondato e guidato.

Ovviamente non avrebbero mai immaginato che nel volgere di qualche decennio, l’eredità del “loro” Movimento sociale si sarebbe dissolta come neve al sole finendo prima fagocitata da un alleato onnivoro al quale non ha saputo opporre la legittima resistenza che pure ci si attendeva e poi irretita dall’impoliticità di una classe dirigente che avrebbe dovuto costruire la nuova destra all’interno del vasto e “plurale” contenitore berlusconiano. Oggi non rimane più niente del “sogno” romualdiano ed almirantiano. A destra c’è il nulla o poco più. In un ventennio, lo spazio di potere dilatatosi davanti ad essa, non è stato riempito di adeguati contenuti politici tanto che al crepuscolo di un centrodestra che è più un cartello elettorale che un aggregato politico, come dimostrano le recenti vicende, è probabile che la frantumazione del sistema politico favorisca nuove sintesi tra forze che si presentano come a-ideologiche piuttosto che favorire la ricomposizione una destra nazionale, solidarista, conservatrice, europeista ma non “unionista”.

È mancato, insomma, quell’interventismo di carattere ideale e culturale, che pure ci si attendeva, da parte di chi aveva dato vita ad Alleanza nazionale, un movimento ambizioso e con le carte in regola per aspirare alla guida del Paese, mettendo le idee a posto, pur senza rinnegare i principi ed i valori fondanti la sua presenza nel panorama politico italiano. A riprova che privi di cultura politica i partiti possono vivacchiare, agevolati anche dalle favorevoli circostanze, ma poi, in assenza di un progetto identitario forte e riconoscibile sono destinati a scomparire. Per ciò che concerne la destra, paradossalmente essa non c’è, eppure c’è. Nel senso che se dal punto di vista politico è molto ridimensionata rispetto al passato, esiste nel Paese come un diffuso “sentimento” che attende di essere convogliato in un contenitore-progetto che abbia caratteristiche tali da offrire ai contenuti più che un “ricovero” un approdo dal quale ripartire. È la speranza di molti e, probabilmente, è anche il solo modo per impegnare in un “nuovo inizio” gli elementi della “diaspora” che aspirano a rimettere insieme ciò che è andato in frantumi.

Operazione ad alto rischio con elevatissime probabilità di suscitare aspettative che potrebbero andare deluse, ma che pure va tentata come sostengono coloro che “abitano” le destre e vorrebbero ridurle ad unità superando personalismi e idiosincrasie, consapevoli che la pur problematica ricomposizione non potrebbe prescindere dall’inclusione di tutti coloro che, a diverso titolo, vi si riconoscono. Non è soltanto un problema di “appartenenza”, ma di democrazia. Curiosamente, Romualdi in un articolo sul Secolo d’Italia, apparso il 28 agosto 1986, osservava che “non la sinistra è mancata al funzionamento della nostra democrazia, ma la destra. Di sinistra in Italia ce n’è stata e ce n’è fin troppa… È la destra che non c’è”. E concludendo si augurava che essa “deve essere una vera forza politica, capace di essere in concreto una grande e determinante forza di opposizione, ma nello stesso tempo, e non a parole, una vera forza di alternativa”. Non immaginava Romualdi che sarebbe diventata pure forza di governo, ma con quali risultati?

Tutti sono stati in qualche modo responsabili della disfatta, a cominciare da coloro che hanno avallato e sostenuto la “fusione a freddo” con altre forze, in particolare con Forza Italia, senza neppure immaginare che operazioni del genere vanno preparate con cura e fatte sedimentare nell’elettorato, tra i militanti, e per di più necessitano di giustificazioni culturali che francamente non vi sono state a seguito del discorso del predellino del 2007. L’amalgama tra esperienze diverse riuscì quando si costituì An; ma poi che cosa ne è stato di quel progetto riformista in senso presidenzialista, delle tendenze statualiste che arditamente s’immaginava che potessero convivere con l’economia sociale di mercato, della partecipazione politica e sociale, del sovranismo e dell’etica della comunità fondata sulla identità nazionale, tematiche agitate a Fiuggi e accolte con interesse anche dagli avversari? Niente di tutto ciò è stato trasformato in organica proposta politica. E poco per volta è sbiadito fino a scomparire.

Trent’anni anni dopo la morte di Romualdi e di Almirante, la destra (o quel che resta di essa) si guarda intorno e non si ritrova. O meglio sa che c’è, ma non ha una casa comune. È tempo che la cerchi – anche a beneficio della democrazia italiana che subisce i contraccolpi della sua mancata riforma e del sistema dei partiti collassato di fronte all’emergere della rabbia e dell’indignazione – cominciando col riannodare i fili di una storia che s’intreccia con quella della nazione. La sua assenza rende oggettivamente più povera la nostra democrazia che non ha bisogno di reduci politici, ma di costruttori di un avvenire possibile. Costruttori quali sono stati, comunque la si pensi, Pino Romualdi e Giorgio Almirante le cui idee, al di là della passione autentica che li spinse all’impresa, quando si cominciavano a scontare le conseguenze derivanti dalla “morte della Patria”, non sono appassite. Chi vuole se ne può rendere conto riconsiderando l’avvilente negazione delle culture di riferimento per “inventare” una politica che purtroppo non ha avuto modo di manifestarsi. Ricordarli entrambi, Almirante e Romualdi, non va scambiato per sterile, sia pur rimarchevole omaggio, ma come un’occasione per riprendere un discorso interrotto. A destra, naturalmente.

Almirante e Romualdi, l’anniversario della loro morte serva alla destra per reinventarsi

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