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Le relazioni diplomatiche tra Washington e Pechino, messe a dura prova negli ultimi mesi, stanno vivendo in queste ore un nuovo momento di tensione dopo l’estradizione negli Stati Uniti di una presunta spia cinese, arrestata in Belgio con l’accusa di avere sottratto documentazioni segrete a società aeronautiche.

LE ACCUSE DEL DOJ

Da tempo Washington punta il dito contro furti di proprietà intellettuale che attribuisce all’intelligence di Pechino, che definisce anche in questo caso “campate in aria” le accuse. E in questo solco si inserisce l’annuncio, da parte del dipartimento di Giustizia statunitense, dell’estradizione di Yanjun Xu, vice direttore del ministero della Sicurezza dello Stato. Il fatto potrebbe costituire, tuttavia, un salto di “qualità” senza precedenti nell’escalation degli attriti tra le due potenze. Si tratta, infatti, della prima volta in cui un funzionario dei servizi segreti cinesi viene portato negli Stati Uniti per essere processato in Tribunale.

LE ACCUSE

Gli addebiti, d’altronde, non sono da poco. Le autorità statunitensi hanno accusato l’uomo, che tra i suoi alias utilizzava Qu Hui o Zhang Hui, di avere richiesto informazioni dal 2013 su diverse compagnie aeronautiche, tra cui General Electric Aviation, uno dei principali fornitori mondiali di motori per aerei commerciali e militari. Questo presunto agente del ministero della Sicurezza cinese avrebbe identificato degli esperti impiegati da queste aziende e li avrebbe attirati in Cina con il pretesto di alcune conferenze universitarie, pagandone anche il viaggio.
Un atto d’accusa di 16 pagine descrive quella che sembra essere una vera e propria operazione internazionale per attirare l’uomo in quello che riteneva fosse un semplice incontro in Belgio. Lo scopo del meeting sarebbe dovuto essere proprio l’ottenimento di informazioni sui progetti di ventole a getto da un dipendente della società aeronautica. Le cose, naturalmente, sono poi andate in modo diverso.

IL FURTO DI SEGRETI AZIENDALI

Per anni, ripercorre il New York Times, la Cina avrebbe usato, secondo i servizi di informazione statunitensi, spycraft e cyber attacchi per rubare informazioni aziendali, accademiche e militari americane per colmare in tempi brevi il gap tecnologico che la separa dagli Usa. Ma arrestare una spia cinese accusata è uno sviluppo straordinario e, secondo molti esperti, un segno inequivocabile della fase di ostilità tra Washington e Pechino, ma anche della repressione da parte dell’amministrazione Trump del presunto furto cinese di segreti commerciali. Contestualmente, infatti, la Casa Bianca ha imposto nuove restrizioni sugli investimenti esteri volti a impedire alla Cina di prendere possesso di società americane ritenute strategiche o di inserire le proprie in settori delicati per la sicurezza nazionale.

IL PROCESSO

L’imminente processo, nella corte federale di Cincinnati, potrebbe ulteriormente esporre i metodi attuati dalla Cina per sottrarre segreti commerciali e mettere in imbarazzo i funzionari a Pechino. Anche questo potrebbe far parte della strategia americana di rendere pubblici i segreti cinesi, rendendo lo spionaggio aziendale una pratica a rischio “shame” (vergogna).
D’altro canto, una mossa così “aggressiva” del DoJ rischia di peggiorare le tensioni già acuite dalla “guerra commerciale” tra i due Paesi. L’arresto potrebbe, infatti, causare l’espulsione di diplomatici o ufficiali dei servizi segreti americani da Pechino.

LE MOSSE DI TRUMP

Questa nuova notizia, ha già raccontato Formiche.net, giunge in un clima teso e di grande sospetto americano nei confronti di Pechino, soprattutto sul versante tecnologico, ritenuto strategico da entrambe le nazioni (Crowdstrike definisce la Cina come la nuova Russia dello spazio cibernetico per ciò che concerne la frequenza e la qualità degli attacchi). Negli ultimi giorni un’inchiesta di Bloomberg ha parlato di presunti chip spia e connettori modificati inseriti nelle apparecchiature informatiche di grandi aziende Usa, ma già da un po’ l’amministrazione Trump ha inserito hardware per computer e reti, incluse schede madri, al centro del suo ultimo ciclo di sanzioni commerciali contro la Cina, con l’obiettivo di spingere le aziende a spostare le catene di approvvigionamento in altri Paesi ritenuti più sicuri. Inoltre, poche settimane fa, l’inquilino della Casa Bianca si era scagliato contro le presunte ingerenze della Repubblica Popolare per mettere in difficoltà l’attuale amministrazione Usa – ritenuta ostile – alle vicine elezioni di midterm a novembre.

I PRECEDENTI

Dal suo insediamento, il presidente americano Donald Trump ha bloccato il tentativo di Broadcom – produttore di microprocessori con sede a Singapore – di comprare la rivale americana Qualcomm in un’operazione da 142 miliardi di dollari. Nonostante Broadcom sia basata a Singapore (e avesse, tra l’altro, intenzione di spostare il suo domicilio negli Stati Uniti anche per far piacere a Trump), Washington temeva che con l’operazione Pechino avrebbe raggiunto la supremazia nel campo dei semiconduttori e nello sviluppo delle tecnologie per la prossima generazione delle reti mobile (5G). Un simile genere di timori aveva spinto al recente stop dell’acquisizione di MoneyGram per mano di Alibaba e dell’accordo tra AT&T e Huawei, per citare altri casi.

LO SCENARIO

Ma la contesa non è solo economico-commerciale. Più in generale l’attivismo di Pechino nel cyber spazio – forse ora più che quello di Mosca, come accennato – viene osservato con grande attenzione da Washington, che considera la Cina un forte competitor – anche di sicurezza – in campo tecnologico, come dimostrano le tensioni con i colossi Huawei e Zte ma anche le crescenti preoccupazioni sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale. Nelle circa trenta pagine del nuovo ‘Worldwide Threat Assessment of the US Intelligence Community’, documento di analisi strategica presentato a febbraio dinanzi al Comitato Intelligence del Senato da Dan Coats, direttore della National Intelligence (che racchiude 17 agenzie e organizzazioni del governo federale), si evince la preoccupazione per i piani di Pechino e di altri Paesi (compresa la Russia), che – a differenza di singoli gruppi – possono contare su organizzazione e ingenti risorse, utili a mettere in atto strategie diverse sempre più aggressive.
La Repubblica Popolare, secondo lo studio, continuerà ad utilizzare lo spionaggio informatico e a rafforzare le sue capacità di condurre attacchi cyber a sostegno delle priorità di sicurezza nazionale (anche se in misura minore rispetto a quanto avveniva prima degli accordi bilaterali siglati nel 2015). La maggior parte delle operazioni cibernetiche cinesi scoperte contro l’industria del Stati Uniti, si sottolinea, si concentrano su aziende della difesa, di IT e comunicazione.
Non è un caso che l’argomento sia anche oggetto di uno specifico report annuale del Pentagono al Congresso, che si concentra sui progressi e i pericoli delle operazioni informatiche di Pechino in ambito militare.

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