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“La politica è terra di trattative e di scambi. Cosa offre l’Italia ai partner europei ai quali chiede di prendersi più migranti? Il problema non è una emergenza, nel senso che non è un fenomeno temporaneo che può essere risolto una volta per tutte. È un problema complesso che ha addentellati e concause nell’africa Sub-sahariana, nei paesi del Sahel e in Libia”, Arturo Varvelli, senior fellow dell’Ispi e Co-Head del Middle East and North Africa Centre, fa un ragionamento ampio a proposito dell’impegno italiano nella gestione dei flussi migratori.

“Pensare che possa essere risolto togliendo le navi, che siano Ong o della Marina italiana, dal Mediterraneo, non solo non risolverà il problema, ma avrà anche delle ricadute negative. La missione Sophia è stata rinnovata il 25 luglio 2017 e il Consiglio europeo ha aggiunto al suo mandato nuovi compiti integrativi. La presenza nel Mediterraneo aiuta il contrasto dei traffici illeciti di ogni tipo, del terrorismo per esempio, e contribuisce a formare quella Guardia Costiera alla quale si offrono nuove motovedette senza però sapere (o fingendo di non sapere) che esistono risoluzioni delle Nazioni Unite che impediscono di dare alla Libia nuovi mezzi militari”.

L’argomento dell’embargo militare è tornato d’attualità perché è stato il ministro dell’Interno italiano, e vice premier, Matteo Salvini, a sollevarlo durante un incontro con colui che occupa il suo stesso ruolo nell’ambito del governo provvisorio che guida il processo di rappacificazione onusiano, Ahmed Maitig, volato a Roma pochi giorni fa. “La Libia paga il prezzo di un embargo che non le permette di rafforzare i mezzi della Guardia costiera e proteggere i propri confini, per noi questo rappresenta un problema serio […] per contrastare il traffico di esseri umani e controllare il nostro territorio, non riusciamo a garantire la sicurezza marittima perché siamo vittima di questo embargo”, ha detto Salvini.

In questo momento c’è un intenso turismo diplomatico italiano in Libia: Salvini è stato pochi giorni fa a Tripoli, sabato è toccato al ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi, a fine luglio sarà il turno della Difesa; e oggi in Libia c’è stato il presidente del Parlamento europeo, l’italiano Antonio Tajani. A cosa si deve questo rinnovato sforzo? “Il viaggio di Moavero è il tentativo di riallacciare i fili del discorso. L’idea è quella di riattivare un canale privilegiato con Tripoli tramite l’accordo bilaterale che consentiva di svolgere lavori pubblici in Libia alle aziende italiane”.

Si parla di una serie di intese che risalgono ai tempi del governo Berlusconi (2008) la cui riattivazione è stata richiesta dal leader onusiano a Tripoli, Fayez Serraj. “Questo ricreerebbe quel tessuto connettivo che ha favorito la penetrazione economica e politica dell’Italia in Libia. Perché la Libia deve ripartire anche dall’economia. Il paese è un rentier state che basa i propri introiti dalla vendita degli idrocarburi all’estero, e la rendita prodotta deve essere distribuita all’interno del paese in modo intelligente ed efficace. Questa redistribuzione ha il potere di diffondere un minimo di ricchezza e attivare attività produttive”.

A lungo termine quindi l’obiettivo sarà anche sostituire l’economia nera con attività produttive a effetto calmierante verso i traffici di milizie e criminali, in grado di far arrivare i benefici alle comunità locali? “È chiaro che sicurezza ed economia devono procedere di pari passo all’interno di un processo di ricostruzione dello stato libico. Sarà lunga ma non ci sono scorciatoie”.

In questo momento gli Stati Uniti ci stanno dando un appoggio in più o proseguono la loro strategia disinteressata sul dossier libico? “Washington sembra sempre distante dalle questioni politiche della Libia, ma certamente l’iniziativa estemporanea del francese Emmanuel Macron della fine di maggio, quando ha convocato un vertice senza consultazioni con gli alleati cercando di dare un imprimatur francese al percorso verso le elezioni, non è piaciuto agli americani”.

“Penso che la prudenza italiana possa essere una sponda utile a Washington. Bisogna limitare dichiarazioni da sprovveduti su nuove iniziative militari e lavorare dal basso. Ci vogliono però nuove idee”. Per esempio? “Per esempio, il delegato Onu per la crisi, Ghassan Salamè, sembra ancora su un binario morto e l’azione multilaterale andrebbe rilanciata”.

“E ancora, il premier Giuseppe Conte sarà alla Casa Bianca a fine mese: cosa dovrebbe chiedere se non una investitura di leadership sulla questione libica?”. Secondo Varvelli bisogna partire da due punti: coinvolgere apertamente le milizie nella trattative cercando di trasformarli da semplici attori militari ad attori politici; andare dritti al punto e parlare di distribuzione regionale dei proventi del petrolio e del gas. “Le negoziazioni dell’Onu hanno sempre (un po’ ipocritamente) evitato di farlo”, spiega l’analista, ma adesso “serve veramente a poco convocare rappresentanti politici che non hanno vera rappresentatività, firmano accordi e fanno dichiarazioni che non sono in grado di implementare, come l’ultima di Parigi”.

Quale politica estera per la Libia? L'analisi di Varvelli (Ispi) con suggerimento per il premier Conte

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