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Va bene, affrontiamola subito la questione del noi. Noi chi? Stella ed io, qui ora a Berlino, nella bella casa di Gabriele e Marc, in attesa di entrare al capezzale di Caterina. Tenace e coraggiosa Caterina che rilancia e rinsalda la dose di stima e di affetto che merita? Noi chi? Le mie due piccole bande – di due di cui ognuno dei due è il numero due – a cui mi sento unito? Noi e i nostri anni migliori ammesso che lo fossero, ed è certo che ci sia un verso per cui lo sono stati? Noi invecchiati da questioni affrontate come chiunque affronti il proprio passare del tempo. Noi abili, maldestri. Noi una volta tardoni frequentatori di ragazze precoci. Allevatori di figli, tessitori di ambienti colorati e contraddittori. Noi, di sinistra. Noi a disagio fin da principio con la Sinistra. Impegnati fin da subito a ridisegnarla, a abitarla calandosi dentro le condizioni di vita di ognuno. Noi le calamite: emigrati, emigranti, operai, poveri o formidabili disoccupati, come quei napoletani da cui traemmo Mimmo Pinto. Noi, la sinistra che non c’era. Che non c’è. Comunque anche questo è un modo di dire, per indicare una porzione del noi. Non basta, anzi confonde. Non credo di avere un granché da insegnare. Chi vuole lo faccia, lo marchi il suo discrimine. Tanto peggio di così non può andare.

Quindi torniamo al Noi. È la contingenza a creare lo spazio, a favorire lo spunto. Fateci caso agli anni di nascita di quello che fino a ieri è stato il gruppo dirigente del più grande partito della sinistra europea ora uscito da una sconfitta elettorale. Schematicamente si va dal 72 al 82. Francesco Bonifazzi (1976), Maria Elena Boschi (1981), Luca Lotti (1982), Matteo Renzi (1975), mi fermo ma potrei continuare. Giovani quindi che noi (intendo quelli nati tra il 40 e il 60) abbiamo avuto figli, li abbiamo fatti studiare, li abbiamo spinti in giro con l’Erasmus, li abbiamo educati alla passione civica, a cui siamo riusciti a non parlare di Carlos Maringhella, dei Tupamaros, delle armi al Mir. Giovani che nel recente passato vivevano un Paese in declino. I nostri figli stanno bene, se Dio vuole stanno bene. Loro abitavano la parte che con un po’ di coraggio e determinazione avrebbero attraversato, rotto l’accerchiamento dei rituali, il conservatorismo del destino chiaramente cinico, fortemente baro.

Davanti le pantomime dei non si può, di fatto brecce abitate da renitenti al mandato, consuetudini, frasi fatte, minacciose buone maniere, scompiglio. Lo strappo godeva di condizioni ottime. Prese a correre come una smagliatura sulle calze di seta e presero a correre da soli. Entrati di spigolo si piazzarono di chiatto e come accade proposero un noi. Non eravamo noi, erano loro. Ho tifato per loro, non li ho mai confusi con noi, ma ho lavorato per loro che a loro volta avevano un nucleo che altro non era se non lui. L’interprete maggiore, il fuori scala, talento e incoscienza. Non lo fa apposta, lo fa per davvero. Aveva strappato e seminato, aveva alzato la mano e scoperto che non solo era possibile toccare il cielo, sembrava addirittura facile. Seguitemi, urlò e non curante di alcuna risposta decise di volare. Volò. A terra le cose cambiavano in fretta. Col telepass ora si entra nei parcheggi, il Centro è pedonalizzato, a Firenze la tranvia squarcia la città ma arriva, la cambia; il parco della musica è inaugurato, si gira in bici. In Italia si fa anche di meglio, anche di più. All’ Italsider, alla Reggia di Caserta, nella piana di Gioia Tauro.

La riforma del lavoro, i finanziamenti nella scuola. Si concludono opere che attendevano da decenni e si guarda con decisione al mondo e al destino. Nel rumore di un brontolio assordante loro non si curano del dissenso. Il loro noi ha confini incuranti e non poteva che essere così. Ho pensato che andassero incoraggiati, sostenuti, che non erano ragioni quelle che gli si opponevano. Erano resistenze, personali ambizioni o supposti torti. Era qualcosa di forte, acido, ma incapace di proporre il senso di una alternativa, di altra via. Dicevano solo… e noi? Per una decina di seggi hanno fatto il diavolo a quattro. Anche la stagione dell’indispettito si è chiusa in un una manciata di sfioriture. Niente di più. Non mi restano che piccoli noi di fronte ad una accelerazione verso l’opposto. Opposti ad una responsabilità comune. La cosa si è fatta grave.

Quel referendum era una porta che ha sbattuto lasciando fuori il mondo nuovo. Non è solo un problema nostro, chiunque ognuno pensi di essere, è il punto di cui va trovata la chiave che ora non sta più nelle nostre mani, nella nostra confusione, nei ritagli di schermaglie domestiche. Sta in Europa e nel mondo. Sta nei conflitti, nella chiusura degli orizzonti. Il tempo si fa veloce e la bella corsa dei giovani girondini che avevano fatto il pieno dei consensi a vuoto si è spenta nello scivolone. Il 40% alle europee fu clamoroso e meraviglioso. Incantava. Come le bolle di sapone sul naso dei bambini. Il 40% nella consultazione referendaria suonava a morto. Noi, cioè me, speriamo che si senta la responsabilità di riaprire una grande partita necessaria e ancora possibile. Non si vince guardando quel di cui sono capaci i vari loro e le incertezze che li intrattengono ma provando e volendo essere attivi, presenti. Meno distinguo, più naturalezza. Puzza di retorica e dà fastidio anche a me ma aspetto davvero con ansia una convocazione: a Bruxelles, a Parigi, a Madrid, ad Atene…

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Noi, la sinistra che non c’era. Che non c’è

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