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Il G7 di giugno si è chiuso con uno strappo clamoroso: Trump si è rifiutato di firmare il comunicato finale lanciando tweet di fuoco in direzione dell’organizzatore dell’incontro, il primo ministro canadese Trudeau. Il G7 era nato negli anni Settanta come incontro dei leader delle grandi e ricche democrazie industrializzate con l’obiettivo di dar prova di unità e efficacia nell’affrontare questioni globali. Ancor di più, doveva rappresentare un esempio da seguire per gli Stati non democratici o in transizione verso la democrazia.

Difficile pensare che nel mondo di oggi le grandi potenze fuori dal G7 la vedano in questo modo, tanto più che ormai, da tempo, guardano casomai al G20, e recentemente peraltro con scarsa attenzione. Dal G7 al G20, dall’Organizzazione mondiale sul commercio all’Accordo di Parigi sul clima, non c’è dubbio che il multilateralismo sia in piena crisi, essendo rimasto orfano del suo più grande ispiratore, gli Stati Uniti. Sembra dunque che solo i Paesi europei, e pochi altri, siano rimasti a difenderlo. E a parole sembra proprio così. Ma se si guarda oltre la facciata, quanto è veramente credibile l’Europa nella veste di ultimo alfiere del multilateralismo?

Per abbozzare una risposta, va anzitutto detto che è un buon segnale che l’Europa tutta si sia schierata contro i dazi su alluminio e acciaio imposti da Trump. Eppure, a ben vedere, l’Europa si trova molto più divisa di quanto non sembri. Molti Paesi europei fanno di tutto per non vedere che il surplus delle partite correnti della Germania (oggi oltre l’8% del Pil) è più alto delle stesse regole che l’Ue si è data al riguardo (limite massimo al 6%). Ciò si traduce in un surplus commerciale tedesco verso gli Usa di oltre 70 miliardi di dollari, pari al 65% del surplus commerciale che l’intera eurozona ha verso Washington.

È inevitabile chiedersi se Trump avrebbe mai deciso di imporre i dazi agli europei se Berlino non contribuisse così tanto allo squilibrio commerciale tra Ue e Usa. D’altra parte gli altri grandi Paesi Ue hanno surplus decisamente più moderati: 4 miliardi di dollari per la Francia, 6 per il Regno Unito. L’Italia ha un surplus decisamente più alto (24 miliardi), ma questo rappresenta pur sempre solo poco più di un terzo di quello tedesco. Non è un caso che nella retorica dell’America first di Trump a essere spesso attaccata sia la Germania e le sue Mercedes che invadono la 5th Avenue a New York.

Nei suoi calcoli Trump sa bene che l’Ue al riguardo è meno coesa di quanto appaia. E lo sarà ancor meno in vista di Brexit. Malgrado infatti il primo ministro britannico Theresa May sia al momento allineata con i partner europei, dopo Brexit Trump potrà permettersi di concedere a Londra condizioni commerciali più favorevoli capaci di minare l’asse Londra-Bruxelles. Ma l’unità solo apparente dell’Europa vale anche in altri casi significativi, come le relazioni con la Cina.

Sul punto l’Ue tenta di ridurre le distanze con Washington cercando un approccio transatlantico su problemi comuni come il monitoraggio degli investimenti cinesi in settori strategici, la difesa della proprietà intellettuale e le condizioni di accesso al mercato cinese. Ma le capitali europee non perdono occasione di avviare rapporti bilaterali con Pechino per favorire il proprio business, spesso incuranti – o quasi – dell’interesse europeo. Con Berlino e Parigi peraltro particolarmente attive al riguardo. Per non parlare dell’iniziativa 16+1 tra la Cina e vari Paesi dell’est Europa, della corsa per accaparrarsi un posto al sole nella Belt and road, o di quella per aderire alla Asian infrastucture investment bank (Aiib) cinese, malgrado l’ex presidente Obama ammonisse che si tratta di un potenziale competitor di una banca di sviluppo veramente multilaterale, come la Banca mondiale.

Infine, come non ricordare l’ascesa di partiti e governi nazionalisti e anti-élite in Europa? Difficile non capire perché agli occhi di Trump – e non solo – l’Europa non è del tutto credibile quando si erge a strenuo difensore del multilateralismo.

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Trump, l’Europa, i dazi e il multilateralismo secondo Villafranca (Ispi)

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