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Nel diritto dell’Unione europea non esiste alcun riferimento generale o definizione completa del partenariato pubblico-privato (PPP), per cui, per analizzare la materia, risulta necessario rivolgersi alle legislazioni dei singoli Stati membri. Del resto, il PPP non è comunque un istituto giuridico distinto dall’appalto e dalla concessione e, come tale, non è autonomamente disciplinato a livello europeo.

In Italia, il decreto legislativo 18.04.2016 n. 50 art. 3 contiene la definizione che sembrerebbe ricalcare quella contenuta nel contratto di concessione di cui alla direttiva 23/2014. Sennonché, nella parte quarta del secondo codice dei contratti, il PPP viene individuato come istituto parzialmente derogatorio insieme a quello dell’affidamento al contraente generale e ad altre modalità di affidamento (art. 179).

Tuttavia, oltre al contratto di PPP vero e proprio, ci sono altre figure che potremmo denominare “operazioni di PPP”, quali la locazione finanziaria di opere pubbliche o di pubblica utilità (art. 187), il contratto di disponibilità (art. 188), gli interventi di sussidiarietà orizzontale (art. 189), il baratto amministrativo (art. 190) e perfino la cessione di immobili in cambio di opere (art. 191).

Ecco dunque il nocciolo del problema. Una prima serie di regole possono essere poste nella cosiddetta finanza comportamentale. In parole povere, da un lato si deve sfruttare a fini giuridici il fenomeno naturale dell’empatia, che deve essere sempre perseguita, per quanto umanamente possibile, durante le trattative. Dall’altro, però, non si deve sottovalutare la tendenza della mente umana a realizzare il massimo risultato con il minimo sforzo. Questa constatazione, infatti, è la molla di tutti i fenomeni corruttivi.

Di conseguenza, se i pubblici poteri adottano una politica autoritaria e non collaborativa, gli affari avranno scarse possibilità di successo. Viceversa, se viene rilasciata ai partner privati una briglia troppo sciolta, se ne approfitteranno per speculare sul contratto. Quindi, il meccanismo della relazione complessiva deve continuare a basarsi su un sistema equilibrato di premialità e sanzioni.

Una seconda serie di regole comuni si basa sulla massima partecipazione popolare e democratica all’assunzione delle decisioni. Quando esse vengono calate dall’alto, infatti, non sono mai amate, soprattutto dalle collettività locali investite in qualche modo dall’eventuale infrastruttura. Indubbiamente, non si può pensare di far decidere alle sole collettività locali la realizzazione o meno di infrastrutture strategiche di interesse nazionale; non si può prescindere, però, dagli interessi delle comunità coinvolte.

Infine, un terzo gruppo di regole sono quelle che riguardano il fisco. Con particolare riferimento all’Italia, non è possibile pensare che i grandi imprenditori investano cospicue somme e capitali in società miste se il cash flow degli investimenti viene poi letteralmente decurtato dalla tassazione societaria: una tassazione sproporzionata spingerà l’imprenditore all’evasione o all’elusione fiscale o, qualora ciò non accada, ne farà le spese l’infrastruttura, a partire dalla qualità dei materiali adottati, alla modestia delle soluzioni estetiche, sino a vere e proprie frodi nelle commesse.

Questo problema, di carattere etico e culturale, non può essere risolto solo con l’introduzione di autorità amministrative indipendenti anticorruzione; la corruzione va prevenuta alla fonte: istituti quali la trasparenza della Pubblica amministrazione, il diritto di accesso civico e i dibattiti pubblici sulla opportunità di realizzazione delle infrastrutture sono fondamentali.

La domanda che ci si deve porre è dunque la seguente: in quale misura il PPP può garantire il mantenimento dei livelli minimi essenziali nella gestione dei beni e servizi comuni? La soluzione che è stata auspicata in proposito dall’Europa è a mio avviso formalistica, anche se giuridicamente corretta: occorre infatti un pubblico potere forte e non catturabile dal regolato (cioè dal concessionario o socio privato), ma a mio avviso questo risultato non è ottenibile se non attraverso un sistema molto complesso di check and balance.

Occorrerebbe quindi una sorta di organo di controllo, se non addirittura di co-gestione, secondo i metodi della democrazia diretta, che sorvegli le scelte politiche. Indubbiamente, potrebbe essere anche rafforzato il ruolo degli istituti bancari e finanziari. In tutto il mondo non orientale il maggior influsso rimane quello derivante dalla nozione di imprenditore e di impresa, che si assume un effettivo rischio non solo sul lato della domanda e dell’offerta, ma anche su quello della domanda e della disponibilità dell’opera e/o servizio.

L’unica soluzione pienamente applicabile al PPP resta quella del fifty-fifty, che pone in una situazione di eguaglianza pubblico e privato. Sotto questo profilo, non persuade la soluzione ammessa dagli articoli 4 e 17 del decreto legislativo 19.08.2016 n. 175, cioè quella di affidare completamente al privato la gestione dell’opera pubblica. Se la natura oggettiva del servizio è di natura speculativa, infatti, il privato certamente se ne approfitterà.

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