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Nel marzo del 2017 l’Italia si faceva garante di un’intesa tra le tribù del Fezzan, nel sud della Libia. L’accordo, sotto la supervisione del ministro dell’Interno Marco Minniti, arrivava al termine di una maratona di 72 ore di colloqui segreti al Viminale e veniva definito dalle parti coinvolte come “un fatto di sangue”. Uno sforzo diplomatico che, da solo, basta a raccontare dell’importanza strategica che Roma conferiva a quel risultato, in grado di riportare stabilità in un’area particolarmente delicata della Libia, teatro fino ad allora di costanti scontri tribali, esposta ai traffici di migranti e di armi, permeabile alle infiltrazioni jihadiste.

Un anno dopo quell’accordo è saltato, con buona pace delle sanguigne promesse. Da inizio febbraio le poche e stringate fonti locali riferiscono di scontri intensi tra le tribù Tebu e Awlad Suliman in diverse zone di Sebha, la principale città del Fezzan. Difficile risalire alla miccia che ha scatenato la deflagrazione delle violenze: alcune fonti parlano del mancato pagamento di risarcimenti previsti dall’accordo di Roma, altre di episodi di criminalità comune che avrebbero innescato la spirale degli scontri. I Tebu hanno preso il controllo del locale aeroporto, forse con l’aiuto di milizie alleate provenienti dall’Africa sub-sahariana; la Sesta brigata degli Awlad Suliman ha attaccato il distretto di Tayuri, provocando la fuga di almeno 1.200 civili; tutti i tentativi di mediazione proposti finora, per lo più a carattere tribale, si sono risolti con un nulla di fatto.

Alla base ci sono equilibri fragili e spesso oscuri. A Sebha convivono gli Awlad Suliman che sono arabi, i Tebu che sono nomadi non arabi (distribuiti anche in Niger e Ciad) e i berberi Tuareg. Dopo la caduta del regime di Muammar Gheddafi, le tre tribù presero a dividersi il controllo dei siti chiave della città, che sorge nell’area di un’oasi in pieno deserto, meta di antiche carovane, e che con gli anni non ha perso d’importanza strategica. Una dinamica che però aprì le porte a una lunga stagione d’instabilità, costellata di sporadiche esplosioni di violenza e responsabile in maniera non trascurabile dell’escalation delle crisi in Libia e nel Sahel, con il Fezzan trasformatosi in breve tempo in una prateria per le scorribande di trafficanti di esseri umani, contrabbandieri e jihadisti in entrambe le direzioni di marcia.

Con il fallimento dell’accordo di Roma, a Sebha si gioca inevitabilmente l’ultima partita per l’egemonia dei due attori che vogliono dominare la Libia: da una parte Fayez al Serraj, capo del governo di accordo nazionale (Gna) sostenuto dalle Nazioni Unite; dall’altra il generale Khalifa Haftar, comandante dell’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) sostenuto da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Esplicativa, a questo proposito, una vicenda accaduta a metà febbraio: l’Lna di Haftar rilascia un comunicato nel quale dichiara che la Sesta brigata degli Awlad Suliman è parte delle sue forze; pochi giorni dopo, la Sesta brigata risponde con un altro comunicato nel quale respinge l’autorità dell’Lna e si dichiara sotto il controllo del ministero della Difesa del governo di accordo nazionale di Tripoli.

Gli ultimi sviluppi non lasciano presagire una conclusione della crisi a stretto giro di posta, tanto che proprio ieri sera la missione delle Nazioni Unite Unsmil ha espresso profonda preoccupazione per la crescente presenza di gruppi armati nell’area. Serraj ha fatto approvare dal Consiglio presidenziale la formazione di un contingente militare da inviare nel sud per “ripristinare la pace”. Haftar ha invece lanciato un’operazione a partire dalla base aerea di Brak al Shati, dalla quale si sono già levati diversi voli di ricognizione. Entrambi appaiono convinti del fatto che il Fezzan sarà nei prossimi tempi il tassello chiave per determinare gli equilibri di forza nel complesso mosaico libico. L’Italia, nel pieno di una fase di transizione politica, non può che restare spettatore interessato: dagli sviluppi a Sebha passano, inevitabilmente, gli spinosi dossier legati a migrazioni e terrorismo.

La partita libica si gioca nel Fezzan. Ecco perché l’Italia è spettatore interessato

Nel marzo del 2017 l’Italia si faceva garante di un’intesa tra le tribù del Fezzan, nel sud della Libia. L’accordo, sotto la supervisione del ministro dell’Interno Marco Minniti, arrivava al termine di una maratona di 72 ore di colloqui segreti al Viminale e veniva definito dalle parti coinvolte come “un fatto di sangue”. Uno sforzo diplomatico che, da solo, basta…

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