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La resa dei conti non c’è stata. Ma la giornata di sabato ha segnato l’inizio della sfida alla luce del sole tra Matteo Renzi e i suoi avversari interni. Una sfida che si è aperta dopo il voto del 4 marzo e le dimissioni dell’ex segretario, ma che finora era rimasta sottotraccia, tra le dichiarazioni in Transatlantico e le interviste su giornali e siti web.

Ora, però, lo scontro è emerso chiaramente in un organo decisionale del partito, l’assemblea nazionale, con i delegati riuniti all’Hotel Ergife. Ci si arriva completamente divisi: Renzi a chiedere un rinvio dell’elezione del nuovo segretario a dopo le elezioni comunali di luglio, mentre Martina e gli altri erano intenzionati a forzare la mano: nuovo segretario subito per portare il partito al congresso da celebrare entro l’anno.

Ha vinto la linea di Renzi, quindi il rinvio: con 397 sì, 221 no e 6 astenuti su un totale di 701 delegati aventi diritto al voto. Tutto rimandato a una nuova assemblea che si terrà il 30 giugno o il 7 luglio. Ma la giornata all’Ergife è stata caliente. Con le due parti contrapposte, riunite in sottogruppi, e una parte di loro, come Pietro Fassino, intenti a trovare una mediazione. Basti dire che, tra veleni, raccolta di firme e tentativi di mediazione, l’assemblea inizia con due ore di ritardo.

Per capire il clima basta vedere il momento in cui il presidente Matteo Orfini chiede alla platea il voto sul cambio dell’ordine del giorno: non più discutere sul segretario ma sulla situazione del Paese. Piovono fischi a non finire. “È un’assemblea delicata, vi prego di non dare uno spettacolo poco dignitoso. Chi vuole fischiare si può accomodare fuori, mentre chi vuole discutere in maniera democratica resti dentro. Siamo il Pd e siamo diversi da altre forze politiche”, dice Orfini. L’assemblea però è una bolgia: non solo fischi, ma urla e contestazioni. “Ma come, abbiamo fatto centinaia di km per essere qui oggi e non si decide niente?”, la reazione di molti delegati. Alla fine si vota il rinvio e poi Martina prende la parola per la sua relazione introduttiva. “Non ho l’arroganza di fare questo lavoro da solo. Ma se tocca a me, anche per poche settimane, tocca a me”, dice il reggente dal palco, mentre i suoi sostenitori, che sono tanti, lo incitano: “Segretario! Segretario!”. In pratica, un’autocandidatura.

In tanti sono contrari al rinvio e avrebbero voluto eleggere un segretario subito. Martina e Franceschini, però, hanno scelto di fare buon viso a cattivo gioco e adeguarsi per non spaccare il partito. Ma quelli della minoranza scalpitano e non ci stanno: Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Francesco Boccia, Michele Emiliano sono contrari a rimandare. Nel frattempo circolano veleni. Per non votare subito il segretario i renziani fanno sapere di aver raccolto le firme per chiedere il congresso immediato: sarebbe oltre 700. Anche da quel fronte, però, arrivano ramoscelli d’ulivo: l’ex sindaco di Firenze rinuncia al suo intervento dal palco. E ai suoi che sono contrari a votare la relazione di Martina, impone invece di votarla: 294 sì e 8 astenuti sarà il risultato sulla relazione, basso ma per lo meno accettabile. In sintesi, però, se Renzi prima delle elezioni aveva il 74% dell’assemblea, oggi ne controlla poco più del 50.

Molti big, tra cui Renzi, se ne vanno all’ora di pranzo, lasciando le truppe a battagliare. Insomma, la minoranza ha provato a forzare la mano per dare al partito un segretario nel pieno delle sue funzioni, ma i renziani hanno resistito: seppur indeboliti sono riusciti a far passare la loro linea. E la cosa non è dispiaciuta pure a un big del calibro di Dario Franceschini, che alla fine plaude al rinvio, perché uno scontro avrebbe lasciato ferite su tutti.

A questo punto, però, è chiaro che il Pd è a una svolta e forse siamo ai capitoli finali dello strapotere dell’ex segretario. Cui però va il merito, riconosciuto da una parte dell’assemblea, di non aver ceduto alle lusinghe dei grillini, “dai quali ci dividono troppe cose: da un governo con Di Maio saremmo usciti con le ossa rotte”. Altri, però, tra cui lo stesso Martina, gli imputano il fatto di non essersi nemmeno seduto al tavolo e di aver escluso a prescindere qualsiasi ipotesi di alleanza. “E ora ci ritroveremo con un governo populista e di destra”, dicono.

Ci sono anche momenti di tensione. “Qualcuno fermi Renzi, sta distruggendo il partito”, l’appello di Olga D’Antona. “Se sarà come oggi, al congresso nun me chiamate!”, dice una delegata romana. La sensazione, però, è che finalmente nel partito si sia iniziato ad affrontare le questioni che hanno portato alla sconfitta elettorale. E a mettere in discussione una classe dirigente che finora ha guidato il partito con il paraocchi, senza ascoltare critiche o consigli. Così il malessere di un Pd dove maggioranza e minoranze da tempo non riescono a parlarsi e a confrontarsi nelle sedi stabilite alla fine è esploso in tutta la sua virulenza.

Tanto che qualcuno torna a parlare di ipotesi scissione: se Renzi dovesse uscire sconfitto al congresso, con l’elezione di un segretario a lui sgradito, a quel punto non si esclude che l’ex sindaco di Firenze possa andarsene e fondare un suo movimento. Ma sconfiggere Renzi al congresso non sarà affatto facile, specie per una minoranza che pure oggi ha mostrato qualche divisione, con alcuni a tirare un sospiro di sollievo per la tregua e altri a fischiare. Insomma, la partita post elettorale nel Pd si è ufficialmente aperta. E i giochi saranno lunghi.

Pd in pieno stallo. Decide di non decidere e la crisi continua

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