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Quella passata è stata senz’altro una delle settimane più violente in Siria. Nel giro di una sola settimana, quattro episodi eclatanti hanno catturato l’attenzione dei media mondiali: i ribelli qaedisti di Idlib hanno abbattuto un jet russo; miliziani curdi hanno abbattuto un elicottero turco; caccia israeliani hanno abbattuto un drone iraniano e, per tutta risposta, la contraerea siriana ha abbattuto un F-16 dello Stato Ebraico.

Queste sono però solo le punte di un iceberg incandescente, quelle di un conflitto che in questo 2018 ha riaperto molti fronti di combattimento, su cui operano attori diversi per nazionalità e obiettivi, e continuato a produrre morti su scala industriale. Questo un breve riepilogo della situazione sul terreno.

Il 20 gennaio la Turchia ha lanciato nel cantone di Afrin l’operazione “Ramoscello d’ulivo”, con l’intento di sgominare i militanti Ypg che la Turchia considera fratelli ideologici dei terroristi del Pkk. Nulla è stato possibile per fermare la mano di Erdogan: nemmeno le consultazioni serrate con Mosca e soprattutto con Washington, che con l’Ypg ha stretto un’alleanza che le ha permesso di sbaragliare la resistenza dello Stato islamico nelle province orientali del paese. Una collaborazione che Erdogan non ha digerito sin dal principio, e che ora minaccia di mandare alle ortiche promettendo di invadere Manbij, la città in cui sono acquartierati gli americani. Lo spettro di un confronto militare tra alleati Nato è solo uno degli aspetti inquietanti di questa guerra di tutti contro tutti. SI capisce in questo senso la preoccupazione del capo del Pentagono Jim Mattis, che ieri in un incontro con il suo collega turco Nurettin Canikli a margine di un incontro Nato “ha chiesto un rinnovato focus sulla campagna per sconfiggere l’ISIS e per prevenire alle vestigia dell’organizzazione terroristica di ricostituirsi in Siria . Nel frattempo, ad Afrin si contano i morti: 80 civili curdi, secondo l’Osservatorio Siriano per i diritti umani, 160 miliziani curdi e 31 soldati turchi.

Se la guerra in Siria è iniziata con la ribellione di parte della popolazione siriana contro il rais Bashar al-Assad, a sette anni di distanza possiamo dire che quella ribellione sia fallita. Il regime ha rimesso le mani su buona parte della cosiddetta “Siria utile”, quella più popolata, e da qualche settimana a questa parte ha ripreso a bombardare, con il volitivo sostegno dell’aviazione russa, le ultime enclave rimaste in mano ai ribelli: quella nordoccidentale di Idlib e Ghouta orientale, sobborgo di Damasco. Il livello di violenza è estremo: secondo l’Alto Commissario per i diritti umani Zeid Ra’ad Al Hussein, la scorsa settimana in Siria si è registrato “uno dei periodi più sanguinosi dell’intero conflitto”. I bombardamenti sono serrati e incessanti, e non risparmiano ospedali e strutture sanitarie. Tra il 4 e il 9 febbraio 277 civili sono morti nelle due località.

Nell’equazione siriana bisogna mettere in conto poi i circa 2 mila soldati americani presenti nella Siria orientale. Sono stati loro che, insieme agli alleati curdo-arabi delle Sdf, hanno sbaragliato lo Stato islamico, sottraendogli a ottobre la roccaforte e capitale di Raqqa. Ma non ci sono segnali di smobilitazione. Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha anzi recentemente annunciato la presenza a tempo indeterminato delle truppe americane in Siria. Dovranno convivere al di qua della linea dell’Eufrate, demarcazione voluta da Vladimir Putin e Donald Trump per separare gli opposti combattenti, perfettamente visibili l’un l’altro. L’incidente della settimana scorsa, in cui gli americani hanno bombardato postazioni siriane (e contractor russi) in seguito ad un presunto attacco delle seconde facendo cento morti lascia intendere che simili incidenti potranno ripetersi in futuro, e che comunque i militari Usa non rimarranno con le mani in mano.

Ci sono infine gli scenari futuri di cui si possono godere già delle prefigurazioni. Il tentativo di questo sabato dell’Iran di violare lo spazio aereo israeliano con un drone ha innescato una rappresaglia durissima da parte di Israele, che ha levato in volo in suoi caccia per distruggere la base da cui era partito l’Uav, ma ha anche cambiato le regole d’ingaggio tra Israele e Siria: negli anni del conflitto almeno cento volte la Siria è stata oggetto di incursioni di Tel Aviv, ma sabato è stata la prima volta che la contraerea di Damasco ha abbattuto un F-16 israeliano.

Il momento è tragico, dunque, per questa Siria sanguinante, spezzettata in mille fronti in ciascuno dei quali sono coinvolti attori spregiudicati che non sembrano conoscere il senso del limite. È per questo motivo che il Consiglio di Sicurezza dell’Onu in questi giorni sta discutendo una risoluzione, presentata da Kuwait e Svezia, per autorizzare trenta giorni di cessate il fuoco durante i quali permettere la consegna di aiuti umanitari e l’evacuazione dei malati e dei feriti.

Le parole dell’inviato Onu per la Siria Staffan de Mistura ieri in Consiglio sono state indicative: è “da quattro anni che faccio l’inviato speciale, questo è il momento più violento, preoccupante e pericoloso di quanto abbia visto in vita mia”. “Ciò che sta succedendo adesso in Siria”, ha aggiunto De Mistura, non solo sta mettendo in pericolo gli accordi di tregua e la stabilità regionale. È anche qualcosa che mina gli sforzi per una soluzione politica. E comunque noi non arretreremo dalla volontà di seguire il processo di Ginevra, che è il solo percorso sostenibile verso una soluzione politica”:

Peccato che il processo di Ginevra sia in alto mare, paralizzato dai veti reciproci sulla figura di Assad e da mille altre controversie che promettono di tenere viva la discussione per lungo tempo. Tempo che i civili siriani intrappolati sotto i bombardamenti non hanno.

hamas diritti

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