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La crisi delle ideologie egualitarie e relativiste sta generando (anche se poco se ne parla in Italia) la riscoperta di categorie culturali che per troppo tempo sono state relegate tra le anticaglie del pensiero. Il “mito” della patria – declinato in chiave identitaria non soltanto da sovranisti approssimativi che spesso e volentieri la stravolgono per legittimare pulsioni egoistiche, ma anche da una sinistra che l’ha buttata nella pattumiera del dimenticatoio ed oggi si trova a fare i conti con un sentimento che non riesce a decifrare – è uno dei più appariscenti. Accanto ad esso v’è quello dell’eroe, tenuto in cattività più o meno per gli stessi motivi e per decenni è apparso come un “residuo” della storia che non avrebbe dovuto avere più cittadinanza come tutto l’armamentario spirituale ed intellettuale in auge tra le due grandi guerre del Novecento.

Invece, come la Patria, sorprendentemente, l’eroe ritorna. E stupisce che un giornale autorevole come il tedesco “Die Zeit” abbia giovedì 12 luglio aperto il suo supplemento culturale con un’invocazione: “Sei mutig!”, sii coraggioso. Qualcosa di più di uno slogan, come è stato frettolosamente classificato, dal momento che nel suo lungo articolo-saggio Maximilian Probst ha esposto la convinzione che non c’è avvenire per una nazione come la Germania, né per altre analoghe, se la cosiddetta “società post-eroica”, espressione coniata dallo studioso Herfried Münkler, non cede il passo al coraggio di affrontare alcune delle grandi sfide contemporanee con quello spirito di abnegazione, di sacrificio e di rinunce che ha caratterizzato altre epoche della storia europea.
Senza giri di parole Probst afferma che “si deve riconoscere che la società post eroica non è sostenibile”. Il che vuol dire che perfino una grande potenza economica può scoprirsi improvvisamente fragile se moralmente non riassume un certo spirito “guerriero” necessario per fronteggiare nemici interni ed esterni, dal jihadismo al mondialismo che riduce identità e culture ad insignificanti amebe. Insomma la forza di una comunità è data dal grado di capacità con cui difende se stessa ed è perciò pronta a confrontarsi con altre comunità, ad aprirsi al dialogo e a misurarsi con il proprio destino cominciando a mettere in discussione il declino demografico per domare il quale occorre un eroismo quasi titanico di questi tempi.

Provocazione intellettuale quella dell’intellettuale tedesco e del giornale che l’ha ospitata? Non crediamo. Consapevolezza di un pericolo in corso così come consapevole è stata una grande presa di posizione nel passato, scientificamente fondata, sulla necessità dell’eroe in una società in trasformazione, minata da quasi simili stereotipi rinunciatari all’apogeo che quello che venne definito lo “stupido XIX secolo”. Allora l’Europa venne scossa da un singolare e geniale scrittore inglese, Thomas Carlyle (1795- 1881), che sfidando i dogmi dilaganti della Grande Rivoluzione pose al centro della riflessione che toccò intellettuali e statisti nel profondo, sulla figura che stava scomparendo sotto i colpi di maglio dell’utilitarismo borghese: l’eroe, appunto.

E Gli eroi intitolò la sua opera destinata a scuotere gli animi del tempo, quando apparve nel 1841 (il titolo completo era Gli eroi, il culto degli eroi, l’eroico nella storia) che oggi rivede la luce in Italia, corredata dalla introduzione di Luigi Iannone, grazie all’Editrice Oaks (pp.361, euro 20,00), disegnando in essa la tipologia di un tipo di un uomo eccezionale e la concezione dell’eroismo nelle diverse civiltà a dimostrazione che nessuna ha potuto sottrarsi al suo fascino.

“Nessun grande uomo vive invano. La storia del mondo non è altro che la biografia dei grandi uomini”, scrive Carlyle. Ed aggiunge che il culto degli eroi e dell’eroico caratterizza le vicende umane più di quanto si sia portati a credere, dal momento che la storia universale, la storia di tutto ciò che l’uomo ha compiuto non è altro che la storia – drammatica, disperata, sublime e gloriosa al tempo stesso – degli uomini che hanno avuto la forza con il loro esempio di trasformare la realtà affronto ogni ardito cimento, saltando i qualsiasi ostacolo, imponendo o almeno tentando di imporre la propria volontà. E quanto il risultato non è stato pari al sacrificio la ricompensa si manifestata in seguito perché altri hanno continuato l’impresa.

L’eroe, insomma, è un idealtypus, è un paradigma che si manifesta diversamente a seconda delle epoche. Carlyle individua sei categorie: l’eroe come divinità (e qui soccorre Esiodo, ma anche Omero), l’eroe come profeta, l’eroe come sacerdote, l’eroe come letterato, l’eroe come re o, diremmo oggi, “statista”. Nel primo caso, che è quello più affascinante, lo scrittore inglese prende in considerazione la concezione nordica secondo la quale una particolare forma di immanenza vuole Dio tra gli uomini. In questo caso l’eroe è Dio stesso e può diventare tale chi muore in battaglia. “I vecchi re – scrive Carlyle – all’avvicinarsi della morte si facevano mettere su una nave, e la nave veniva lanciata, con le vele issate e un lento fuoco che la bruciava, affinché una volta in alto mare, potesse incendiarsi e fiammeggiare in alto, seppellendo così degnamente il vecchio eroe, nello stesso tempo su nel cielo e giù nell’oceano”.

Negli altri casi gli eroi sono profeti, poeti, letterati, sacerdoti, sovrani. Quest’ultimo riassume tutte le forme eroiche che Carlyle analizza. Le incarna tutte, insomma, per indicare agli uomini/sudditi i diritti ed i doveri a cui devono conformare le loro attività.

Ogni tempo ha il suo eroe o più eroi, perfino quando non vengono riconosciuti. Ed è indubitabile, seguendo la classificazione di Carlyle, che Dante e Maometto, Cromwell e Napoleone, abbiano inciso a tal punto nella storia dell’umanità come veri e propri eroi del loro tempo incarnando nella forza rivoluzionaria e trascinatrice della loro opera un ideale di uomo capace di governare i destini delle moltitudini o di indirizzarli verso lidi individuati dalla loro volontà. Una funzione non soltanto sacrificale, dunque, ma pedagogica ed anagogica, nel senso cioè che tali eroi hanno avuto e continuano ad avere l’abilità di suscitare la disposizione del singolo ad agire e a pensare, a vivere, lottare ed eventualmente sacrificarsi in vista di qualcosa che lo trascenda. Per far sì che la storia non sia “un distillato di rumori”, ci ricorda Carlyle, c’è “sempre bisogno di grandi uomini” attraverso i quali, come nota Iannone nella sua introduzione, possono svelarci “un tragitto, un percorso da compiere. E ciò accade quando sembrano calare le tenebre”.

L’analisi e la traiettoria formulate da Carlyle non sono immuni da interrogativi. Ma quel che resta di inossidabile dal suo libro più suggestivo è il richiamo a figure che dominano la storia e la “fanno”. Negare questo aspetto che è sociologico, politico, letterario e perfino religioso, significa abrogare uno dei principi generatori delle civiltà. Infatti queste muoiono, come è stato dimostrato, quando la linfa vitale si essicca e non genera più personalità eccezionali.

Che la nostra società post-eroica possa tramontare per questa via non lascia certo tranquilli. Quel che vediamo intorno a noi è una mediocrità che annuncia l’evanescenza e di fronte alla quale gli eroi di Carlyle sono di ammonimento. Forse anche di stimolo alla ricerca nell’individuarli. Il presupposto, come ha titolato “Die Zeit”, è di essere coraggiosi.

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Abbiamo ancora bisogno di eroi? La discussione in Germania e la ripubblicazione di Thomas Carlyle

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