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La necessità di espellere gli immigrati che non hanno diritto di restare in Italia è tema dibattuto da decenni e infuocatosi dal 2014, da quando cioè il flusso dalla Libia ha raggiunto punte estreme. La sparatoria di Macerata ha riacceso le polemiche da campagna elettorale e, con l’eccezione di Emma Bonino e di qualche esponente della sinistra più rigida che puntano ad accogliere tutti, la stragrande maggioranza dei partiti propone ricette più o meno drastiche, con accuse reciproche di responsabilità. Accusare l’altro di quella che è un’emergenza sociale significa comunque ammetterne l’esistenza. Purtroppo, pochi spiegano quali sono gli ostacoli che rendono molto complicate le espulsioni.

ACCORDI DI RIAMMISSIONE E “RITROSIE” DIPLOMATICHE

L’Italia e l’Ue hanno accordi di riammissione con numerosi Paesi. Il ministro dell’Interno, Marco Minniti, disse alla Camera il 22 novembre scorso, rispondendo a un’interrogazione, che «l’Italia e l’Unione europea hanno concluso accordi di riammissione con oltre venti Paesi a forte vocazione migratoria», disse Minniti elencando le intese per il contrasto all’immigrazione irregolare con Algeria, Gambia, Ghana, Gibuti, Niger, Nigeria, Senegal e Sudan e “specifiche iniziative” con Libia, Tunisia, Egitto e Gambia. Inoltre, “stanno lavorando a un programma di rimpatri con il Bangladesh”.
L’ingresso legale nella Ue, concluse il ministro, «sarà più difficile per i cittadini di un Paese terzo che non collabora alle politiche di rimpatrio». In totale, l’Italia ha accordi con 24 Paesi terzi, oltre a 17 membri Ue.

La principale difficoltà, però, è rappresentata dal fatto che un cittadino straniero, per essere espulso, dev’essere trattenuto in custodia dall’Italia e riconosciuto come connazionale dall’ambasciata o dal consolato del proprio Paese. Siccome si tratta di nazioni con enormi problemi economici, è intuibile la ritrosia dei diplomatici: cercano di non riprenderseli perché in patria non potrebbero offrire un lavoro rinunciando allo stesso tempo alle rimesse economiche dall’Italia. La legge consente il trattenimento nel Cpr, centro di permanenza per il rimpatrio, per non più di 90 giorni: se il riconoscimento non avviene entro quei termini, l’immigrato dev’essere rimesso in libertà. Così si riduce il numero delle espulsioni.

POCHI CPR PERCHÉ NESSUNO LI VUOLE

I Centri di permanenza per il rimpatrio sono stati introdotti con il cosiddetto decreto Minniti sull’immigrazione, la cui legge di conversione fu approvata nell’aprile 2017. L’obiettivo era di aprire un Cpr in ogni regione con un numero massimo di 200 persone per favorire da un lato la rapida espulsione degli irregolari e dall’altro per far accettare più facilmente le strutture dalle comunità locali. Finora le cose non sono andate così perché sono attivi solo cinque centri mentre in quell’intervento alla Camera a novembre Minniti aveva annunciato l’apertura di altri sei centri entro la fine del 2017, apertura non ancora avvenuta per il muro alzato dalle amministrazioni locali. Una buona sintesi della situazione la fece il capo della Polizia, Franco Gabrielli, il 30 gennaio a Bologna: “Noi non possiamo accogliere tutti e, se non possiamo accogliere tutti, dobbiamo immaginare che qualcuno debba tornare al proprio Paese. E per questo servono delle strutture” disse Gabrielli. Poi, però, quando “si va sui territori e si dice che bisogna creare i Cpr, lì casca l’asino, in una sorta di schizofrenia”. Tipica sindrome Nimby: cacciateli, ma nel frattempo non teneteli nel mio giardino.

POCHE ESPULSIONI

L’identificazione da parte dei diplomatici stranieri può avvenire solo se l’immigrato irregolare è tenuto in custodia, quindi nei Cpr. Se in via del tutto ipotetica si procedesse a identificazioni negli alloggi dove sono ospitati in tante parti d’Italia, si scatenerebbe certamente una fuga perché preferirebbero far perdere le tracce anziché essere rimpatriati. Tutto ciò porta a poche espulsioni e a difficoltà pratiche per il Dipartimento di Ps del Viminale visto che, essendoci pochi centri, qualche volta si è costretti a trasportare un immigrato irregolare da Nord a Sud impiegando due o tre agenti per un paio di giorni.

Dal 1° gennaio al 5 novembre 2017, disse Minniti rispondendo a quell’interrogazione parlamentare, sono stati espulsi 17.405 irregolari, dunque in tutto l’anno scorso saranno stati circa 18mila. Pur essendo il 14 per cento in più del 2016, si tratta di numeri risibili rispetto ai 119.310 arrivi del 2017. Tra di essi i nigeriani, di cui si è tornati a parlare in seguito ai fatti di Macerata, furono i più numerosi: 18.153, seguiti da 9.693 dalla Guinea, 9.504 dalla Costa d’Avorio e 8.995 dal Bangladesh. Quest’anno, sui 4.723 arrivi al 5 febbraio (meno 43,9 rispetto all’anno scorso), gli eritrei sono 1.184, seguiti da 754 tunisini, 279 pakistani, 252 nigeriani e 233 libici, questi ultimi novità assoluta. Vanno poi ricordati altri due elementi: la già scarsissima ricollocazione in Europa (12.220 soggetti al 5 febbraio) riguarda solo chi ha diritto all’asilo e oltre il 60 per cento delle richieste di protezione viene respinto, quindi oltre il 60 per cento degli immigrati ospitati in Italia dovrebbe essere rimpatriato.

LA GIUSTIZIA

Non sarà facile per nessuno dopo il 4 marzo trovare una soluzione ai problemi esposti, che comportano tempi lunghi e diplomazia internazionale. Nel frattempo, c’è anche una questione di giustizia. Scontare una pena inflitta a italiani o stranieri dovrebbe essere ovvio, ma non lo è. L’insofferenza verso gli immigrati aumenta se, a Macerata e altrove, molti di loro organizzano spaccio di droga o sfruttamento della prostituzione e se le forze dell’ordine in tutta Italia da anni lamentano che i loro sforzi non vengono ripagati, visto che molti arrestati tornano subito liberi. “La certezza della pena è il problema dei problemi” ha ribadito Gabrielli pochi giorni fa. Anche la magistratura dovrebbe fare un esame di coscienza.

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