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Procedono spedite le negoziazioni sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, con le sedute messe in agenda da metà aprile dalla taskforce della Commissione europea guidata da Michel Barnier per discutere sulle questioni ancora aperte relative alla separazione ai sensi dell’art. 50 del trattato sull’Unione Europea e per cominciare a discutere sulle future relazioni tra le due parti.

Il Consiglio europeo del 22-23 marzo ha infatti approvato l’intesa raggiunta tra i negoziatori della Commissione europea e del Regno Unito su larga parte dell’accordo di recesso e sulla definizione di un periodo di transizione tra il 29 marzo 2019, data di termine dei negoziati e di uscita dell’Regno Unito dall’Ue, e il 31 dicembre 2020.

L’intesa riguarda principalmente il mantenimento dei diritti acquisiti dai cittadini europei residenti nel Regno Unito e viceversa, il mantenimento degli impegni finanziari assunti dal Regno Unito per il bilancio dell’Unione 2014-2020, e un’intesa di massima, ancora da approfondire, sui confini tra Irlanda del Nord e Repubblica di Irlanda.

I punti salienti dell’intesa sono rappresentati dalla decisione di conferire un nuovo status ai cittadini europei che risulteranno essere residenti nel Regno Unito da prima del 31 dicembre 2020, con riconoscimento dei diritti acquisiti e reciproco riconoscimento per i cittadini britannici residenti negli Stati membri dell’Unione, e il diritto di ricongiungimento dei familiari anche successivamente alla fine del periodo di transizione.

La definizione delle modalità di tutela di tali diritti, con la possibilità di rinvio da parte dei giudici del Regno Unito alla Corte di Giustizia europea, il diritto di intervenire per il governo britannico e per la Commissione europea, nei casi pertinenti, dinanzi alla Corte di Giustizia europea e davanti alle corti e ai tribunali del Regno Unito, e la disposizione che l’attuazione della parte dell’accordo relativa ai diritti dei cittadini sarà monitorata nell’Unione dalla Commissione europea e nel Regno Unito da un’autorità nazionale indipendente.

Per quanto attiene invece all’accordo finanziario, l’intesa è stata raggiunta sul punto che il Regno Unito contribuirà e parteciperà all’attuazione dei bilanci annuali dell’Unione europea per gli anni 2019 e 2020 come se fosse rimasto nell’Unione e riceverà una quota di tutti i benefici finanziari che sarebbero ricaduti su di esso se fosse rimasto uno Stato membro.

È stato inoltre concordato che le merci immesse sul mercato in base al diritto dell’Unione prima del ritiro del 31 dicembre 2020 possono circolare liberamente sui mercati del Regno Unito e dell’Unione europea senza necessità di modifiche del prodotto o di rietichettatura, che tutte le procedure di cooperazione di polizia in corso alla data di ritiro che hanno superato una certa soglia (da definire) dovrebbero essere completate in base al diritto dell’Unione, e che per le procedure giudiziarie in corso la Corte di Giustizia europea dovrebbe rimanere competente fino al raggiungimento di un giudizio vincolante.

Definita l’intesa di massima sull’accordo di recesso, si comincerà adesso a discutere sulle future relazioni tra le parti. Al momento la soluzione più probabile sul tavolo dei negoziatori sembra essere quella di un Free Trade Agreement sul modello svizzero, con la negoziazione di trattati commerciali settore per settore. Sembra invece in questo momento meno probabile che si segua il modello norvegese con l’ingresso del Regno Unito nell’European Economic Area che determinerebbe il mantenimento dell’accesso al mercato unico continuando a contribuire al budget europeo.

Questa fase della negoziazione è certamente la più delicata poiché dalle scelte che verranno compiute conseguirà l’evoluzione dei rapporti futuri tra Regno Unito ed Unione europea in termini di relazioni economiche e commerciali, ma anche, non meno importanti, in termini di politiche di difesa, come di recente testimoniato dall’operazione militare tenuta in Siria dalle amministrazioni Usa, GB e Francia, o di cooperazione nella lotta al terrorismo e nelle operazioni di polizia internazionale, solo per citare alcuni tra i diversi ambiti di interrelazione.

L’avvio della seconda fase di negoziazioni avviene in una situazione non semplice. Per l’Unione europea che vive un momento in cui è pervasa al proprio interno da numerose critiche e spinte disgregatrici, come si è visto, ad esempio, con quanto accaduto in Catalogna o con le recenti elezioni in Ungheria.

Ma anche nel Regno Unito dove nonostante il lavoro della premier Theresa May per tenere una posizione equilibrata, il governo è strattonato da più parti. Da un lato con l’ex premier Tony Blair che propone di riconsiderare la scelta referendaria che ha dato avvio alla Brexit, con i movimenti pro-Unione che hanno organizzato in Scozia una grande manifestazione di piazza per chiedere che l’accordo sul recesso venga sottoposto a voto popolare, e con il Labour di Corbyn che ha fatto della Brexit il principale tema di opposizione al Governo. Dall’altra con le posizioni più intransigenti, favorevoli ad una hard Brexit, sia all’interno degli stessi Tories, con il segretario di Stato per gli Affari Esteri ed ex sindaco di Londra Boris Johnson, sia all’esterno con l’Ukip anche dopo le dimissioni di Nigel Farage.

Eppure un buon accordo, equo ed efficace, sarebbe nell’interesse di tutti. Basti pensare, per esempio, all’entità dei rapporti commerciali intercorrenti tra Unione europea e Regno Unito: circa 600 mld di euro di scambi commerciali nel 2015, secondo fonti dell’Office for National Statistics, e oltre 650 mld nel 2016.

La strada per buon accordo per il dopo Brexit è iniziata, si tratta di un percorso accidentato, ma con buon senso e lungimiranza potrà essere portato a compimento.

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