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Originario di Accra, sei volte campione d’Italia con la maglia della Juventus e ora ufficialmente ingaggiato con l’Inter, per Kwadwo Asamoah non si deve per forza migrare in Europa per avere successo nella vita: l’Africa è un continente che può offrire di più. Intervistato da Ylenia Citino nella serie di inchieste di Untold Africa, il calciatore ghanese ha messo in relazione le migrazioni degli aspiranti giocatori con il traffico di esseri umani nel calcio. Il racket dei falsi agenti in Africa, infatti, è una pratica che sta aumentando vertiginosamente assieme alla speranza di poter mettere piede sul suolo europeo.

«Molti africani vogliono andare in Europa per fare fortuna. Il mio consiglio è che possono fare fortuna anche in Africa. Un conto è nelle zone di guerra, allora posso capirlo. Altrimenti non trovo nessuna ragione per cui dovrebbero lasciare il loro paese. Chiunque lavora sodo può farcela a casa propria. Quanti sono gli europei che vengono in Africa e trovano opportunità di lavoro? E allora perché la gente di qua non può farcela ugualmente? Ci sono molti talenti in Ghana – conclude Asamoah, – hanno solo bisogno delle persone giuste per essere scoperti e portati avanti».

Sui barconi, ogni trecento migranti ci potrebbero essere dieci o quindici aspiranti calciatori. Di questi, solo uno o due riusciranno a realizzare il loro sogno. Se da un lato il problema dei flussi migratori irregolari sta innescando una grave crisi in Europa, dall’altro si assiste a un nuovo fenomeno in ascesa di cui ancora pochi parlano: il traffico di esseri umani legato al mondo del calcio. C’è, infatti, chi preferisce non sfidare la sorte attraverso il Mediterraneo. Giovani ambiziosi che provano a trasferirsi in Europa seguendo le procedure regolari e che spesso risultano vittime di manager senza scrupoli. Sono tante le reti di criminali messe in piedi per fare da presunti intermediari con dei club famosi. Finti agenti che falsificano visti o passaporti e che depredano i malcapitati con continue richieste di denaro, sfruttando la loro voglia di successo.

Alcuni, scoperta la truffa, rientrano a casa affrontando la delusione della famiglia. A volte, però, i falsi agenti requisiscono alle vittime documenti e soldi come risarcimento per il mancato guadagno da un provino andato male. Queste persone finiscono in condizioni prossime alla schiavitù perché spesso non hanno più i mezzi per rientrare nel proprio paese. Oliver Arthur, fondatore della Arthur Legacy Sports Management che ha sfornato talenti che giocano in serie A come Afriyie Acquah e Godfred Donsah, ci spiega la mentalità dei giovani africani con il sogno del calcio: «Guardano all’unica storia di successo e dimenticano le centinaia di tragedie, i morti annegati o i rimpatriati. Il desiderio di sfondare nel calcio e di fare soldi per loro e per le loro famiglie li acceca. Così diventano vulnerabili alle truffe e ai trafficanti».

Ce n’è uno che ha voluto raccontarci la sua storia. Oman, Marocco, Ecuador: Kennedy Ansah ha fatto il giro del mondo prima di dover rinunciare al suo sogno di diventare calciatore. Si è fatto truffare in tre occasioni da intermediari fraudolenti. In Oman è stato detenuto per un mese. In Marocco non ha mai ottenuto un provino con la squadra che pensava lo avesse invitato. In Ecuador, gli hanno chiesto altri soldi. Ancora non riesce a credere di esserci cascato tutte queste volte.

La vicenda di Kennedy è esemplare. Gioca a calcio perché gli piace. La famiglia crede che possa essere un mezzo per diventare ricchi e lo incoraggia nel suo sogno. Viene contattato da un presunto agente che gli fornisce, dietro pagamento di un lauto compenso, assistenza per visto, volo aereo e permesso di lavoro, al fine di essere valutato da un’importante squadra nazionale omanita. Se Kennedy fosse riuscito a firmare un contratto, l’agente avrebbe preso il 20%. Nel frattempo, avrebbe dovuto pagare tutto di tasca sua. Somme che per un giovane africano sono considerevoli. Quanti amici suoi sono finiti sul lastrico per realizzare quel sogno?

«Ma mi sono fidato perché il mio sogno era giocare. Tutti si fidano. Quando hai diciotto anni e il pallone è l’unica cosa che sai fare bene sei disposto a tutto». Kennedy non è salito su un barcone perché, fortunatamente, poteva permettersi di pagare varie volte un biglietto aereo. Ma purtroppo la fiducia è mal riposta. Il primo agente gli rifila un visto falso e a Mascate viene arrestato. Assieme ad altri due aspiranti calciatori, resta in cella per un mese senza riuscire a spiegarsi con la polizia aeroportuale, senza poter avere un avvocato e senza poter nemmeno rintracciare l’agente, resosi irreperibile.

La polizia tenta di contattare invano il manager della squadra relativa alla loro lettera d’invito e nel frattempo i giorni passano. I tre ghanesi restano in cella, dimenticati dal mondo e ignari di quello che potesse accadere. «Ogni quattro ore venivano per portarci da bere o da mangiare. Alla fine abbiamo rinunciato e chiesto di poter ritornare in Ghana con il primo volo disponibile».

Kennedy non impara la lezione e viene gabbato di nuovo. Stavolta è abbordato da un amico noto per aver facilitato il trasferimento di famosi calciatori in Marocco. Atleti che giocavano nelle migliori squadre del Ghana. «Decidiamo di fidarci ancora. Sborsiamo 250 dollari a testa per avere il visto. Ci dicono che il volo sarebbe stato rimborsato dalla squadra. Nella lettera d’invito non se ne parla, ma noi non ci facciamo caso perché vogliamo solo realizzare il nostro sogno. All’arrivo, un ghanese che fa da intermediario ci chiede altri 100 dollari e ci mette a dormire in un angolo di casa sua. Una volta a destinazione, sono rimasto tre mesi in attesa di un provino ufficiale, ma gli unici che ho potuto incontrare sono stati i ragazzi della junior team, con i quali mi allenavo due volte a settimana in maniera ufficiosa. Dopo tre mesi, ho perso la speranza». La stessa cosa si ripete in Equador, solo che lì spende molti più soldi e, una volta rientrato in Ghana avvilito e immiserito, si rassegna ad abbandonare per sempre il suo sogno.

A lucrare sulle vittime non ci sono solo i falsi agenti e i trafficanti di esseri umani. Molti aspiranti calciatori credono in una nuova via per aggirare gli ostacoli verso il paradiso europeo: l’Asia orientale e il sud-est asiatico. Qui fanno da mediatori anche agenti Fifa, che spesso nascondono le reali condizioni di lavoro. Improvvisamente negli ultimi anni squadre nepalesi, malesi, mongole o thailandesi pullulano di calciatori provenienti dall’Africa occidentale. Lì le politiche dei visti sono molto meno restrittive. Ma qual è l’interesse a giocare in club che nelle classifiche Fifa si trovano al fanalino di coda? «Il fatto è che qui in Ghana un calciatore professionista viene pagato mediamente cento euro al mese. Anche se lì guadagna mille euro è grasso che cola», spiega Oliver Arthur. «E poi, – prosegue, – in Ghana non ci sono strutture mediche sportive, quindi se uno di loro si infortuna e non ha i soldi per andare all’estero, la sua carriera potrebbe essere finita. Per un calciatore trovarsi all’estero è, inoltre, una facilitazione per avere i contatti nel calcio mainstream. Ancora una volta la mentalità è la stessa: vedono due, tre persone su cento che ce la fanno e dimenticano di tutto il resto». E quelli che non vengono ingaggiati? Di nuovo, se sono rimasti privi di mezzi per rientrare a casa proveranno a vivacchiare in qualsiasi modo, sprecando il loro talento ma sperando che prima o poi qualcun altro “li scopra”.

Kwadwo Asamoah, che vive in Italia ormai da dieci anni, vede una connessione fra l’inasprirsi del problema politico dei migranti, i toni sempre più accesi di leader come Matteo Salvini e gli inni al razzismo negli stadi. «L’ho sperimentato molto durante questi anni. Io non sono il tipo che si lamenta e non mi faccio frustrare da questi episodi. Ma non tutti i giocatori africani riescono a tollerarlo. Quando mi trovavo nel Regno Unito o in Francia non capitava spesso. In Italia, invece, ne subiamo tanti. A volte i tifosi dell’ultima squadra in cui ho giocato, che non erano razzisti con me, facevano cori xenofobi ai giocatori neri della squadra avversaria».

La realtà, purtroppo, è quella che è. In Ghana, ultimamente, sono cadute molte teste per via delle sconvolgenti rivelazioni sulla corruzione nel mondo del calcio contenute nel documentario del giornalista a volto coperto, Anas Aremeyaw Anas. Per portare il calcio africano a livelli comparabili con quelli europei, il percorso è ancora lungo. Ma ciò che si può fare, in queste settimane in cui si celebra la Coppa del Mondo, è parlarne. Per non dimenticarsi di tutte queste vittime. Le vittime del loro grande, e spesso irraggiungibile, sogno.

calcio

Gli africani possono farcela anche a casa propria. Parla Asamoah

Di Ylenia Citino

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