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Secondo le anticipazioni uscite sui giornali americani, il segretario di Stato designato statunitense, Mike Pompeo, (che oggi, giovedì 12 aprile andrà davanti alla Commissione Esteri del Senato per l’audizione di conferma prima del voto) annuncerà un inasprimento della linea con la Russia, come si legge dagli estratti sulla sua dichiarazione: “La Russia continua a operare in modo aggressivo, grazie ad anni di soft policy” ma “Now over“, adesso fine, dice Pompeo.

“L’elenco delle azioni di questa amministrazione per elevare il costo per Vladimir Putin è lungo. Stiamo ricostruendo il nostro già forte comparto militare e ricapitalizzando il nostro deterrente nucleare. Abbiamo imposto sanzioni più dure ed espulso più diplomatici e funzionari dell’intelligence russi dagli Stati Uniti che mai dalla Guerra fredda”, aggiunge il futuro segretario. E ancora: “Se non guidiamo le richieste di democrazia, prosperità e diritti umani in tutto il mondo, chi lo farà?”.

Quel “chi lo farà?” segna un grosso distacco tra la visione nazionalista trumpiana e questo richiamo pseudo-globalista repubblicano più classicheggiante: però non c’è da sottovalutare che per crearsi entrature tra i democratici del Senato, Pompeo deve muoversi su questo genere di terreno. L’aspetto interessante è soprattutto l’inserimento della dichiarazione nel contesto attuale: impossibile non inquadrare queste parole nel momento delicato che Mosca e Washington stanno vivendo in Siria. Dopo l’attacco chimico di Douma – per cui gli americani accusano i russi e i russi accusano un complotto filo-americano – la tensione è altissima: movimenti militari, minacce di attacco e contrattacco.

Mercoledì il capo del Pentagono, il generale quattro stelle Jim Mattis, ha fatto sapere ai giornalisti di aver annullato tutti gli impegni in agenda, perché lavorerà con i suoi uomini per preparare opzioni militari da mettere sul tavolo dello Studio Ovale. Questo significa che i missili “smart” di cui il presidente Donald Trump ha parlato in un tweet per il momento non “stanno arrivando” (il virgolettato è di quello stesso tweet in cui Trump minacciava Mosca di colpire presto, dopo che i russi avevano avvisato a loro volta gli americani di voler abbattere qualsiasi aereo o missile sulla Siria e anzi di voler bombardare i punti di lancio; dunque i battelli della US Navy).

Gli americani al momento dunque non hanno un piano preciso: l’eventuale intervento – a cui prenderanno parte anche Francia, Arabia Saudita e probabilmente Regno Unito – è ancora da formulare tatticamente. Per scelta strategica, infatti, gli Stati Uniti non hanno gruppi da battaglia nel Mediterraneo: il bacino, e i suoi dossier, sono considerati da Washington argomenti laterali e compresi nell’area del Grande Medio Oriente; regione che per gli americani è territorio di caccia ai jihadisti, confronto con l’Iran e supporto ai partner locali, limitati interessi energetici, e molto meno – e soprattutto nell’era trumpiana – luogo in cui giocare dinamiche pesanti come un potenziale regime change in Siria.

Anzi: l’eventuale piano d’attacco americano è complicato dal fatto che ormai nessuno vuole togliere dal trono di Damasco Bashar el Assad (nemmeno Trump, che adesso lo chiama “Animal” ma che durante il confronto elettorale televisivo di ottobre 2016 diceva che sarebbe stato un attore a cui approcciarsi con pragmatismo). D’altronde, la testimonianza di questo s’è vista sia dai contatti che Assad ha ricostruito in giro per il mondo, fiancheggiato dalla Russia, sia da un’esperienza simile all’attuale.

Quasi un anno fa esatto, gli americani bombardarono con una salva di missili Tomahawk la base siriana da cui partì il jet responsabile dell’attacco chimico a Khan Sehykhun (su cui una commissione Onu mesi dopo ha tolto ogni dubbio: è stato Assad a ordinarlo). L’effetto fu limitato, i russi furono avvertiti in tempo, la dissuasione praticamente nulla: Assad ha continuato a usare armi non convenzionali, come gli ordigni arricchiti al cloro che probabilmente sono stati impiegati a Douma (come in altre dozzine di zone negli ultimi mesi).

Su tutto, inoltre (e soprattutto) c’è il grosso rischio di colpire i russi: perché un conto sono le parole dure di Pompeo, le espulsioni dalle ambasciate occidentali di agenti segreti travestiti da diplomatici, le sanzioni contro i circoli elitari che sostengono il potere putiniano; un conto è uccidere con un missile americano (o francese, o inglese) un militare regolare russo. L’escalation sarebbe rischiosissima.

D’altronde però, nemmeno Mosca se la sente di ingaggiare uno scontro talmente delicato: quando, qualche mese fa, alcuni cacciabombardieri americani intervennero per difendere dall’avanzata minacciosa di gruppi sciiti, governativi siriani e contractor russi (il solito mix di cui si compone quello che semplificando viene definito l’esercito assadista), verso una postazione dove un’unità di forze speciali statunitense impiegate contro il Califfato era acquartierata in Siria, Mosca insabbiò velocemente le decine di perdite russe causate dal bombardamento – è una necessità doppia: perché Putin non può permettersi di spendere soldi in Siria e riportare a casa cadaveri, e Mosca non vuole con gli Stati Uniti un vero confronto militare.

Il quotidiano russo Kommersat ha qualche informazione in più su come stanno andando avanti queste ore: innanzitutto, a quanto pare, le navi della Flotta del Mar Nero che si trovavano a Tartus sono uscite tutte dal porto, mentre i siriani hanno spostato i propri caccia a Latakia (dove si trova la grande base russa di Hmeimim) ed è stata issata la bandiera russa su diverse postazioni; il tricolore federale serve come il sangue d’agnello sulle porte bibliche per indicare bersagli da evitare.

Inoltre è stato attivato il canale diplomatico-militare che passa dalla Turchia: già a marzo dello scorso anno, quando attorno alla città di Manbij (nord siriano) ci si trovò davanti a una situazione altrettanto delicata, i capi di stato maggiore di Stati Uniti, Russia e Turchia si incontrarono per trovare una via di de-escalation. Ora ci sono una serie di intermediari che stanno lavorando su loro delega.

Putin ha inoltre ricevuto la chiamata del premier israeliano, Benjamin Netanyahu: Tel Aviv ha colpito in Siria domenica scorsa, il giorno dopo dell’attacco chimico, seguendo un pattern noto che riguarda la propria sicurezza nazionale (e non i buoni sentimenti globalisti sul conflitto). I russi hanno finora permesso agli israeliani di preservare questi interessi, ma forse con le ultime volte qualcosa si è rotto: almeno a livello di immagine, perché nei fatti sembra che Netanyahu starebbe giocando un ruolo centrale nell’evitare di infiammare oltre la situazione tra Stati Uniti e Russia.

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