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È un errore enfatizzare o sottostimare i risultati conseguiti dalle recenti riforme del lavoro poiché i dati a disposizione non possono essere letti a seconda dell’uso che si vuole fare. Vero è che gli effetti sull’occupazione del Jobs Act, dal 2015 si leggono come forti incentivi economici triennali (gennaio 2015 – dicembre 2017) che hanno svolto un ruolo determinante, se non addirittura esclusivo.

I dati dell’Osservatorio sul precariato dell’Inps mettono in evidenza che, dopo il boom del 2015 – con un 54% di rapporti stabili determinato dal forte sgravio contributivo che è all’origine del 60,8% di queste assunzioni – i contratti a tempo indeterminato si sono drasticamente ridotti già nel 2016 (32,9%), per poi diminuire ulteriormente nel 2017 (24% nei primi otto mesi). Diminuzione legata all’esaurirsi dell’incentivo economico iniziale, con la sua sostituzione con uno sgravio molto più ridotto o riferito solo ad alcune categorie di lavoratori.

Le rilevazioni Istat riferite a Novembre 2017 mostrano come – su base annua –  i nuovi posti di lavoro siano 497mila, di cui 450mila a termine e 48mila permanenti. È evidente dunque, che la nuova disciplina del contratto a tutele crescenti (Ctc) ha avuto effetti assai ridotti sulle assunzioni stabili. Lo studio della Banca D’Italia di Paolo Sestito e Eliana Viviano conferma queste conclusioni.

L’analisi cerca di distinguere gli effetti sull’occupazione degli sgravi contributivi rispetto a quelli determinati dalla riduzione di tutele nei licenziamenti. Sestito e Viviano concludono che il 40% delle nuove assunzioni – che corrisponde al 20% del totale dei nuovi contratti nel periodo – è legato agli incentivi economici, mentre il 5% dei nuovi rapporti di lavoro – pari all’1% del totale includendo altri contratti – può essere ascritto alla interazione dei due interventi (sgravi contributivi e riforma dei licenziamenti con il contratto a tutele crescenti). Sicuramente comunque vi sono stati, se pur modestamente, effetti sull’occupazione del contratto a tutele crescenti.

C’è da dire che è comunque un rapporto di lavoro regolare e data la situazione del mercato del lavoro, è sbagliato dire che poiché non sono a tempo indeterminato sono contratti deboli. Contratti a tempo determinato, produttività del lavoro, part time: sono parametri destinati a contare sempre di più nel mercato del lavoro; ma mentre la crescita dell’indicatore della produttività è indiscutibilmente un dato positivo, la crescita del lavoro a termine e di quello part time è abitualmente associato a marginalità e precarietà. Una convinzione che, soprattutto in una fase di crescita, va ripensata alla luce di un mercato del lavoro fluido e funzionante. Sul piano statistico occorre tener presente che circa il 24% dei posti di lavoro a basso contenuto professionale nel 2016 era a tempo determinato, contro il 14,4% di tempi determinati rispetto al totale degli occupati; proporzione peraltro comune a quasi tutti Paesi europei, con la notevole eccezione della Germania e del Regno Unito, dove i contratti a termine sono spalmati abbastanza uniformemente su tutti i livelli professionali. Nella zona euro comunque il dato è simile a quello italiano, con il 23% dei posti a basso contenuto professionale occupati da lavoratori a termine; fanno eccezione Olanda e Svezia, rispettivamente con il 35% e il 30%. Da notare che in questi due Paesi l’occupazione a tempo determinato sul totale è rispettivamente del 21% e 18%: ben più alta della nostra che si colloca oggi al 14,4%.

Vero è che a chi studia e insegna ai giovani i processi riformatori è necessario evidenziare quanto poco le amministrazioni e anche la rete delle imprese siano pronte a implementare le nuove leggi che il Parlamento vara; e, per altro verso, quanto esse siano più potenti del Parlamento. L nostra politica vive di improvvisazione. Nei Paesi più evoluti le riforme vengono progettate accuratamente e, ove possibile, partono da sperimentazioni limitate, perché possano esserne valutati pragmaticamente gli effetti. Nella nostra politica manca quasi del tutto il metodo sperimentale: forse anche perché il metodo sperimentale richiederebbe governi stabili, che possano operare con l’orizzonte quinquennale di un’intera legislatura.

 

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