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Il livello di ambizione espresso dalle politiche turche degli ultimi 15 anni è stato spesso frainteso, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti. I più hanno visto nell’ascesa al potere di Recep Tayyip Erdogan e del suo Akp soprattutto la manifestazione di un tentativo di riforma nazionale, volto ad accelerare la modernizzazione economica del Paese e a liberarlo dalla potente ipoteca della tutela militare. Pochi hanno invece prestato attenzione all’analisi geopolitica sulla quale è stato fondato il programma di rinascita della Turchia e ancora meno sono stati coloro che si sono misurati con la percezione che i turchi hanno di se stessi e del proprio ruolo nel mondo. Ed è proprio da questi due fattori che invece occorre partire per comprendere le scelte di Ankara.

I lunghi decenni della Guerra fredda hanno impresso in tutti noi l’immagine di una Turchia marca estrema dell’occidente, isolata dal suo antico retroterra e ansiosa di omologarsi al carattere laico ed economicamente liberale delle democrazie atlantiche. Abbiamo creduto che la nazione turca, emersa dalle rovine della lunga esperienza imperiale ottomana, potesse interamente rinnegare le proprie radici passate. E ci siamo anche convinti del fatto che i turchi fossero troppo poveri e arretrati per tentare di riproporsi nei panni della grande potenza. Il pregiudizio ci ha accecato, impedendoci di distinguere i fattori contingenti dai dati strutturali.

Così non abbiamo capito che il kemalismo era stato il risultato di una sconfitta e che il ridimensionamento della sfera d’influenza turca doveva moltissimo alle condizioni createsi in seguito al confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Eppure proprio il professor Ahmet Davutoglu, ministro degli Esteri e poi premier della Turchia di Erdogan, ci aveva spiegato quanto Ankara avesse sofferto in seguito alla privazione della “profondità strategica” goduta dagli ottomani e come la caduta dell’impero di Mosca avesse finalmente restituito ai turchi la possibilità di condurre una politica di riaffermazione a 360 gradi della propria potenza.

Ci è sfuggita soprattutto la circostanza che i turchi si ritengono da sempre un grande Paese, a suo modo centrale ed essenziale alla formazione degli equilibri regionali e globali. È successo anche perché non ne conoscevamo la storia. Non sapevamo che gli attuali abitanti dell’Anatolia occidentale discendono da un grande popolo originario della steppa mongola, la cui grande migrazione verso ovest aveva determinato tanto la caduta di Roma quanto quella di Costantinopoli. Lingue affini al turco si parlano tuttora dallo Xinjiang cinese alla Finlandia.

Le politiche economiche che hanno permesso il recente sviluppo turco sono state strumentali. Sono servite a consolidare il consenso e dotare la Turchia dei mezzi necessari all’incremento della propria potenza nazionale. Sulla strada della propria espansione, alla quale è stato asservito anche lo sfruttamento dell’ideologia dell’Islam politico, Ankara ha però fatalmente incontrato una serie di ostacoli, che l’hanno portata ad affrontare altrettante prove di forza, con l’esito di porre la Turchia in rotta di collisione con tutte le maggiori potenze presenti nella propria regione: dall’Iran alla Russia, dall’Arabia Saudita a Israele. La potenza turca ha raggiunto l’apice quando ha potuto valersi della convergenza d’intenti con gli Stati Uniti di Barack Obama. Il suo declino è iniziato con il rovesciamento del presidente Morsi in Egitto.

Erdogan ha perso anche la guerra civile siriana, ma ha avuto la freddezza di adeguarvisi, accettando i termini della sconfitta per renderla meno gravosa e rinviando la realizzazione delle proprie aspirazioni. Ha subìto persino un tentativo di golpe, da molti ricondotto all’insoddisfazione di Washington per il riavvicinamento di Ankara a Mosca. E con Trump la situazione è ulteriormente peggiorata, anche in seguito all’estromissione del filoturco generale Flynn dal National security council. È però prematuro considerare Erdogan finito. I turchi hanno aperto basi militari in Qatar e Somalia, dispongono di armi e profughi con i quali condizionare il corso futuro degli avvenimenti in Siria nonché di un bacino di migranti asiatici sempre spendibili per inondare di disperati l’Europa e diminuirne ulteriormente la già precaria coesione. A differenza nostra, l’élite turca è spregiudicata e pensa in termini strategici. Non possiamo perciò sottovalutarla.

turchia erdogan

Perché non sottovalutare Erdogan e la sua Turchia. L’analisi di Dottori

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