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La Brookings Insitution, think tank washingtonian considerato il migliore al mondo, ha diffuso una pubblicazione destinata a segnare la strategia e le policy che l’amministrazione americana potrebbe (dovrebbe) usare con Mosca per “contenere l’aggressione russa e creare dissuasione per futuri attacchi” per poi “ristabilire l’equilibrio” – che è anche il titolo del lavoro, composto dalle analisi di alcuni dei massimi esperti al mondo sulle relazioni tra Washington e Mosca che hanno parlato a vicenda su una serie di argomenti proposti da Bruce Jones, che per la Brookings segue il Foreign Policy Program.

Ne sono uscite 28 pagine da archiviare come punto fermo della situazione attuale e futura, pubblicate a due settimane dall’incontro di Helsinki tra Donald Trump e Vladimir Putin.

Jones comincia col cercare di capire come mai si è arrivati a questo punto – le mosse in Ucraina, le ingerenze alle presidenziali e più in generale le operazioni di trolling con cui creare destabilizzazione in Occidente (per esempio, la Cnn ha ricostruito in questi giorni come lo scorso anno le fabbriche dei troll russi abbiano lavorato per diffondere argomenti divisivi tra i cittadini americani dopo l’uccisione di Philando Castle), in definitiva dunque, la politica estera aggressiva russa.

Le più comuni ricostruzioni si dividono tra chi sostiene che Putin abbia iniziato un push-back combattivo perché s’è sentito accerchiato dall’espansione a est della Nato (che in teoria non sarebbe dovuta avvenire), e chi invece sottolinea che l’aggressività è una caratteristica che sarebbe venuta fuori comunque durante l’azione presidenziale, anche per mantenere presa sul potere interno.

“Putin ha ripetuto talmente tante volte il primo punto, che è finito per persuadersi”, ha commentato Steven Pifer, ex alto funzionario del dipartimento di Stato, ora in forza al think tank sul campo della non-proliferazione degli armamenti. Ma in realtà la situazione è dovuta a una visione del mondo “zero-sum” con cui il presidente russo vede in generale le democrazie liberali come un problema per la sua stabilità. Per questo, spiegano gli esperti, una partnership, finché sarà lui a guidare il Cremlino, appare complicata.

Però, commenta Thomas Wright, direttore del centro con cui la Brookings si occupa di studiare le relazioni tra Stati Uniti ed Europa, è necessario ristabilire un equilibrio almeno sul warfare politico, ossia quello che riguarda le attività russe di ingerenza e destabilizzazione attraverso l’intrusione nel corso socio-politico-culturale di altri paese.

Combattere in questa guerra ibrida e informativa richiede che l’Occidente sia credibile, in grado di creare deterrenza reale, dice lo studioso. Usa e Ue dovrebbero comunque combinare questa pressione – fatta anche di forti sanzioni economiche – all’apertura su aree di comune interesse, dialoghi di alto profilo su questioni globali e canali di comunicazione per evitare escalation.

Il punto, però, aggiunge Strobe Talbott (ex presidente della Brookings fino al 2017, quando gli è subentrato il generale intellettuale John Allen), è che tutto avviene, adesso, in un momento in cui c’è “un grande elefante nella stanza”, e l’atteggiamento di contenimento che Washington potrebbe giocare – fatto di quelle pressioni e dialogo già usato anni fa – viene meno. Il riferimento è all’imprevedibilità dell’azione di governo di Trump.

Su aspetti concreti, come la situazione in Georgia e la crisi in Ucraina, non c’è convergenza di vedute tra gli esperti della Brookings: fermo restando che soprattutto la seconda sia ritenuta come il motivo scatenante della depressione dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, non tutti gli analisti credono che dell’attuale caos sia meglio una distensione con Mosca, se poi questa dovesse essere forzata e costruita su termini di interesse russo (per esempio: se la crisi ucraina dovesse chiudersi con una soluzione accettata diversa dagli accordi Minsk).

Il risultato che accomuna tutte le analisi è che la Russia richiederà a Washington un focus strategico a lungo termine, certamente fatto di non-isolamento, ma nemmeno di concessioni (in due parole la policy si potrebbe definire “contatto severo”). Questo perché, è vero che l’instabilità economica connessa anche alle sanzioni (da cui Putin “è umiliato e spaventato”, anche se non lo ammetterà mai, spiega l’ex vice-presidente della Banca centrale russa, Sergey Alekashenko) potrebbe creare malcontento tra i cittadini, “soprattutto tra i giovani” (sottolinea Angela Stent, professare della Georgetown University), ma è quasi impossibile che si inneschi una stabilità sociale interna o reali riforme strutturali in Russia. Anzi, Putin continuerà, se necessario, a fare affidamento su una politica estera aggressiva per nascondere le condizioni dell’economia russa.

 

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