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Che Paese può essere quello in cui una persona che vive dignitosamente oltre la soglia di povertà si trova attorniato da uno sciame persecutorio? Un posto in cui, in nome di un egualitarismo di facciata, diritti e ragioni competono in una gara di livellamento al ribasso? Chi perde e chi vince davvero in questo battage pre-elettorale?

La categoria dei manager in pensione si sente giustamente ferita da isterismi ideologici e tanta demagogia. Di fronte a una campagna politica che si appresta ad aumentare la confusione sul futuro del sistema previdenziale, tirando la manica della giacca con ipotesi di riforma insostenibili e rispolverando vecchi cliché a partire dalla abusatissima formula “pensioni d’oro”, a noi non resta che fare il punto. Sperando che qualcuno risponda al richiamo con senso di responsabilità.

La verità è nei dati. Ed è questa verità che l’opinione pubblica deve essere messa in grado di leggere e interpretare correttamente.

Deve essere chiaro, infatti, che la spesa pensionistica italiana pura, cioè quella che si ottiene eliminando la spesa per prestazioni tipicamente assistenziali (come quelle Gias) e le imposte sulle pensioni (che sono una partita di giro per lo Stato) si attesta intorno all’11% del Pil un dato che dimostra l’equilibrio tra entrate per contributi e uscite per prestazioni puramente pensionistiche, assolutamente in linea con gli altri paesi europei.

Una spesa, quella previdenziale netta, che è cresciuta solo dello 0,2% tra il 2015 e il 2016, a dimostrazione dell’efficacia delle riforme attuate in materia previdenziale e dell’evidenza di spazi di opportunità per attenuare gli effetti rigidi di altre, a partire dalla Legge Fornero che ha peccato di eccesso.

Piegare la logica di benchmarking europeo per affermare che il nostro sistema previdenziale affossa il debito pubblico italiano e mette a rischio la sostenibilità dei conti, spendendo troppo per le pensioni e troppo poco nelle altre forme di protezione sociale, è un’operazione mistificante. Se l’Europa si mostra preoccupata del nostro bilancio lo fa in prospettiva, perché abbiamo un tasso di disoccupazione giovanile tra più alti dell’eurozona, una demografia che ci penalizza più di altri, e un debito pubblico che è una zavorra.

Basterebbe separare i dati tra previdenza e assistenza per accorgersi dove sta il vulnus. Ma nessuno, davvero nessuno, pare disposto a fare i conti dell’assistenza sociale.

A tale proposito, infatti, non viene mai fatto alcun riferimento al dato relativo agli oltre 8 milioni di pensionati (oltre il 50% del totale) che sono a carico, in tutto o in parte, della collettività non avendo versato contributi sufficienti a costituire una pensione.

Viene spesso dimenticato che circa la metà degli italiani non presenta la dichiarazione dei redditi, mentre solo il 12% dei contribuenti (prevalentemente lavoratori dipendenti e pensionati) sostiene oltre il 55% del gettito Irpef complessivo. Nessuno, poi, evidenzia che sono oltre 100 i miliardi che, dalla fiscalità generale, sono destinati esclusivamente alla spesa assistenziale erogata dall’Inps, la quale, peraltro, cresce al ritmo del 6% l’anno.

Altrettanta demagogia è profusa quando si sostiene che le pensioni più elevate hanno maggiormente beneficiato del sistema di calcolo retributivo o che gli operai pagano le pensioni dei manager per i disavanzi della contabilità separata di bilancio dell’ex Inpdai. Semmai è vero l’esatto contrario in quanto sono le pensioni medio basse che hanno goduto di un maggior beneficio, che tende a ridursi fino ad annullarsi con il crescere dell’importo della pensione.

Il tasso di sostituzione tra pensione e ultima retribuzione per i manager, con 40 anni di contributi versati, è intorno al 50% rispetto all’80% delle retribuzioni più basse. Pertanto sono le pensioni medio elevate che fanno solidarietà verso le altre e non viceversa.

Bisogna fare chiarezza, poi, in merito agli asseriti disavanzi di bilancio derivanti dalla confluenza dell’Inpdai nell’Inps: questi sono solo contabili e non reali per una serie di motivi che non vengono mai riportati, tra cui il conferimento all’Inps di una serie di voci compensative che non hanno comportato disavanzi nell’arco dei successivi 10 anni, il trasferimento dell’ingente patrimonio immobiliare all’Inps (oltre 6 mila miliardi di vecchie lire) ma soprattutto il fatto che dal 2003 i nuovi dirigenti e quelli che cambiano settore sono iscritti direttamente all’Ago lasciando a carico della contabilità separata ex Inpdai esclusivamente i pensionati.

La nostra organizzazione si batte e continuerà a farlo per evitare lo scontro generazionale e per evidenziare che il parametro per considerare una “pensione d’oro” non può essere sintetizzato nell’ammontare della pensione stessa bensì nella correlazione tra l’importo e i contributi versati.

Per garantire la sostenibilità del nostro welfare e l’adeguatezza delle prestazioni, la ricetta non può che chiamarsi occupazione: più posti di lavoro stabili, magari incentivando seriamente il secondo pilastro della previdenza complementare.

Le pensioni si basano sul lavoro ed è sul lavoro che si basa la nostra Repubblica. È bene quindi che chi si candida a governare si prenda in carico seriamente il problema dei bassi tassi di occupazione giovanile e pensi a far funzionare realmente la macchina di politiche attive del lavoro.

Per coprire i buchi del bilancio pubblico e agire nell’interesse generale, lo Stato dovrebbe poi evitare gli sprechi e le regalie, combattere la corruzione, i privilegi ingiustificati, gli illeciti arricchimenti, la illegalità diffusa: i pensionati non possono essere sempre considerati il capro espiatorio delle tante insufficienze e difficoltà della gestione della cosa pubblica.

Invochiamo piuttosto regole certe sulle pensioni, che tutelino tanto chi in pensione si trova già, tanto chi attende (o spera) di andarci un domani.

Sino ad oggi nessuno dei governi che hanno guidato il nostro Paese ha seriamente e concretamente affrontato il vero problema dell’Italia cioè l’evasione fiscale e contributiva: su 16 milioni di pensionati 4 milioni sono assistiti totalmente dalla fiscalità generale e altri 4 milioni in gran parte.

Federmanager quindi ritiene che le priorità dell’agenda del prossimo governo non possono che essere quelle del lavoro, della riforma fiscale, della separazione dell’assistenza dalla previdenza nonché quella del rilancio della previdenza complementare.

In questi mesi di avvicendamenti di partiti, programmi elettorali, prove di alleanza, chi cerca il consenso diffondendo false promesse su questi temi potrebbe non danneggiare solo se stesso, ma mettere a rischio la coesione sociale creando il conflitto dove non c’è mai stato, tra genitori e figli, tra nonni e nipoti.

Non esiste minaccia più dannosa. Pertanto, non avalleremo una dialettica di conflitto intergenerazionale e smaschereremo, come stiamo facendo, chi strumentalmente si appella al valore della solidarietà. Una solidarietà, si badi bene, che noi sosteniamo ogni giorno nei fatti, oltre che nei principi.

Pensioni, l’appello di Federmanager ai partiti contro la demagogia

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