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L’Italia non ha mai smesso di essere un Paese statalista. A dispetto di vent’anni di privatizzazioni più o meno cercate nel mito della concorrenza come soluzione a tutti i mali. A conti fatti, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Lo dimostra il caso Tim, con la Cassa depositi e prestiti fresca di ingresso nel capitale della società telefonica, privatizzata giusto 22 anni fa e oggi battente bandiera francese. Ma anche il caso Alitalia, con l’improvviso stop alle trattative per la cessione, proprio all’indomani del voto del 4 marzo che ha sancito la vittoria di Lega e Cinque Stelle, partiti poco inclini a forme di privatizzazione. E che dire di Mps, riacciuffata per i capelli con una nazionalizzazione lampo ad opera dell’allora governo Renzi?

Se tre indizi fanno una prova, allora secondo Serena Sileoni, vicedirettore dell’Istituto Bruno Leoni, ente che ha fatto del libero mercato il suo dna, la prova c’è tutta. Il fatto è che il blitz dello Stato italiano dentro l’ex Telecom è tutt’altro che un fulmine a ciel sereno, forse più un qualcosa che era nell’aria. “C’è una contraddizione di fondo nella vicenda Tim. Dopo anni passati a sbandierare la concorrenza e il libero mercato adesso lo Stato rimette mano in un mercato ormai privatizzato da tempo. Mi pare il classico ragionamento sovranista, dove cioè la qualità del servizio dipende dalla bandiera che si batte, in questo caso francese”, spiega Sileoni a Formiche.net.

Qualcuno però potrebbe obiettare come alla base della mossa di Cdp ci siano ragioni di sicurezza nazionale, visto che Tim si prepara allo spin off della rete, che produrrà una società ad hoc incaricata di gestirla. Lo Stato insomma, vorrà fare avere voce in capitolo (con Open Fiber verosimilmente) nella gestione di un’infrastruttura strategica come le telecomunicazioni. “Certo, so benissimo che c’è una questione di sicurezza. Ma allora qualcuno dovrebbe spiegarmi perché è stata fatta una legge sulla golden power se poi alla fine lo Stato si è visto costretto a rientrare dalla finestra nelle telecomunicazioni. A cosa è servita quella legge? Forse, alla fine, siamo di fronte più a un prurito sovranista che altro, che doveva necessariamente trovare uno sbocco”. E lo sbocco è arrivato con Cdp.

A tirar le somme, ce ne è abbastanza per dire a dispetto di tante crociate su concorrenza e libero mercato “sì, siamo ancora un Paese a vocazione statalista. Prediamo il caso Alitalia, appena è andata in crisi dopo essere stata messa in mano ai privati sono saltate fuori le Poste, cioè lo Stato. E ora la trattativa per la sua cessione si è addirittura arenata. Ancora prima c’è stato il caso Mps. Insomma, la scelta di Cdp è un qualcosa che rappresenta una vocazione mai veramente spenta”,

Con Lega e Cinque Stelle al governo, la natura statalista dell’Italia potrebbe uscirne rafforzata. Ma forse non così come si crede. “Siamo un Paese che predilige il pubblico, non vedo svolte o accelerazioni in questo senso, rimarremo più o meno così. Francamente non temo un peggioramento delle cose, a dispetto dei proclami elettorali. Quando ci si infila una cravatta i toni si smorzano. E tanto”.

Cdp e Tim? La solita vocazione statalista italiana. L’opinione di Sileoni (Ibl)

L'Italia non ha mai smesso di essere un Paese statalista. A dispetto di vent'anni di privatizzazioni più o meno cercate nel mito della concorrenza come soluzione a tutti i mali. A conti fatti, il lupo perde il pelo ma non il vizio. Lo dimostra il caso Tim, con la Cassa depositi e prestiti fresca di ingresso nel capitale della società telefonica,…

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